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Borio - Facci

Composizione e sperimentazione nel rock britannico 1967-1976

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GIANMARIO BORIO - SERENA FACCI


Quarant'anni dopo... Una musicologia pluralistica per il rock britannico (*)

1. Composizione e sperimentazione

I saggi e gli interventi pubblicati in questo sito sono dedicati a una tendenza della popular music che, originatasi in Gran Bretagna nel corso degli anni Sessanta del XX secolo, ebbe ripercussioni in diverse parti del mondo. I suoi limiti storico-temporali sono fluidi e variabili a seconda che lo si osservi dal punto di vista culturale e politico o da quello delle pratiche musicali. Gli aspetti salienti emergono nei pezzi di King Crimson, Genesis, Gentle Giant, Henry Cow, Pink Floyd, Soft Machine, Van der Gaaf Generator e Yes che vengono discussi nei contributi che potete leggere qui di seguito. Nella saggistica corrente questa koiné viene comunemente definita con il termine progressive rock (Macan, 1997; Stump, 1997; Martin, 1998; Holm-Hudson 2002; Pirenne, 2005), che però, essendo tratto dall’apparato promozionale di quegli stessi prodotti, è caratterizzato da considerevoli ambiguità. L’aggettivo progressive serve infatti, a seconda dei casi, a definire l’atteggiamento integrativo rispetto ai materiali e agli stili musicali, l’indipendenza nei confronti dell’industria discografica, la spinta al progresso e al rinnovamento del linguaggio, il legame con la controcultura e i movimenti di contestazione. Anziché sostituire tale termine, ormai assai diffuso, con un neologismo, abbiamo preferito concentrare la nostra attenzione su un nesso – quello di composizione e sperimentazione – la cui delucidazione dovrebbe permettere di evitare l’appiattimento della teoria sui presupposti extrateorici del marketing e di approfondire le questioni più rilevanti che quella produzione ha posto. L’approccio eclettico, che attinge ai metodi della musicologia storica e dell’etnomusicologia nonché agli studi della popular music e del jazz, è determinato dalla molteplicità di aspetti delle creazioni che stiamo studiando. Il progressive rock non appartiene in modo esclusivo né alla tradizione orale né a quella scritta; le sue creazioni non sono analizzabili in modo esaustivo né secondo i principi della teoria musicale tradizionale né adottando unilateralmente le procedure della sociologia, dell’antropologia o della semiologia; l’origine e la breve storia di questo stile non si lasciano spiegare secondo la tipica dialettica di continuità e rottura con il passato, mentre, d’altro canto, le sue realizzazioni non si possono ridurre a prodotti industriali privi di storia (Borio, 2003). La ricchezza e peculiarità degli strati culturali rappresentano aspetti affascinanti e lanciano al contempo una sfida alle discipline istituzionali. L’esperienza del convegno, che si riflette nei contributi, è stata un esercizio di musicologia pluralistica in cui vengono superate le rigide divisioni in settori.
Composizione e sperimentazione – i due concetti che abbiamo ritenuto centrali per questo ambito creativo - richiamano il legame del progressive rock con la tradizione della musica d’arte, che nel linguaggio comune viene definita “classica”. La pretesa di valore artistico, che si sovrappone e in certi casi si sostituisce alla funzione di intrattenimento e alle finalità economiche, si manifesta su diversi piani: la lunghezza e la complessità dei pezzi, il loro raggruppamento in suites o strutture formali di ampie dimensioni, la scelta di testi ermetici, surreali e comunque dal contenuto estraneo alle consuetudini del blues e del rock and roll, l’impiego di dissonanze e rumori, la richiesta più o meno esplicita di un ascolto concentrato. Tutti questi elementi segnalano una prossimità con la cultura musicale dei conservatori, delle accademie e dei festival di musica contemporanea, che è tanto più degna di nota quanto è stata considerata con scetticismo dai protagonisti. Tuttavia sarebbe fuorviante ricondurre, senza alcuna mediazione, le creazioni del progressive rock al quadro dell’evoluzione storica della musica d’arte. Uno dei fattori di interesse per la musicologia storica è proprio il loro collocarsi in modo trasversale nei confronti delle categorie storiografiche ed estetiche. Una riflessione su che cosa possa significare la parola “composizione” in un repertorio le cui radici ultime affondano nella musica popolare, in un repertorio che è cioè extraterritoriale rispetto alle tradizioni della sinfonia e dei quartetti, induce a esaminare uno dei capisaldi della musica occidentale in una prospettiva che è insieme interna ed esterna.
Il termine “composizione” è diffuso nei trattati sulla musica delle lingue europee a partire dal IX secolo. Nella sua complessa storia esso non ha mai perso contatto con la sua radice etimologica: comporre significa “mettere insieme”, combinare elementi basilari del sistema sonoro creando un’unità superiore (Bandur, 1996). Con l’evolversi della notazione dell’Occidente, il concetto di composizione si è sempre più strettamente collegato a due fattori: la concezione polifonica, per cui composizione significa unificazione di voci simultanee in una sonorità globale che trascende il senso specifico delle sue componenti, e la scrittura che fissa il pensiero di un autore su un supporto trasportabile. Sebbene le relazioni tra la composizione come testo e la sua manifestazione sonora siano state soggette a continue oscillazioni, non vi è dubbio che l’evoluzione del sistema semiografico e la progettazione di strutture sonore sempre più complesse sono due fenomeni correlati che tendono verso una fissazione sempre più precisa del testo (Borio, 2004). La realizzazione  grafica viene considerata come garanzia del fatto che l’idea dell’autore emergerà in ogni esecuzione, anche in quelle delle generazioni successive. Una volta completata, la partitura si candida a entrare nel pantheon dei capolavori o comunque nel canone di opere che formano il repertorio e il fondamento del sapere musicale.
La cultura che culminò nell’affermarsi del linguaggio tonale e nell’emancipazione della musica strumentale si contraddistingue per un rapporto tra tre entità: l’autore, la partitura e la sua esecuzione. Una delle conseguenze di questo triangolo è che l’esecuzione (il suono) è da un lato separabile dalla composizione (che si oggettiva nel testo); dall’altro l’idea di interpretazione è iscritta per così dire ontologicamente nella musica; ciò significa che per questa cultura non vi è musica senza la sua interpretazione. Se si prendono in esame diverse creazioni del progressive rock, si nota che questo rapporto triangolare non si dissolve (come avviene in molta popular music) ma si ridefinisce secondo una modalità inedita. Innanzitutto la dimensione della scrittura – il carattere di testo – si sdoppia: da un lato, momenti di scrittura possono apparire nelle fasi iniziali del processo compositivo; dall’altro lato, la registrazione in studio assume diverse caratteristiche che nella musica d’arte sono proprie della scrittura. Questo scambio di funzioni tra scrittura su pentagramma e scrittura su nastro (o disco) è indicativo per il mutamento di concezione della composizione. Le ragioni per le quali i componenti dei gruppi rinunciarono alla notazione come medium della trasmissione delle loro creazioni raramente dipendono dal fatto che essi erano illetterati sul piano musicale. Si possono individuare almeno due altri fattori, di ordine più generale, che determinarono il passaggio in secondo piano della scrittura: innanzitutto la notazione della musica occidentale non permette di rendere in modo adeguato le misture timbriche e le escursioni dinamiche che vengono perseguite da questi musicisti; in secondo luogo, lo studio di registrazione offre una potente alternativa alla scrittura tradizionale, permettendo ai musicisti di tradurre direttamente in suono le loro idee e di modificarle in corso d’opera. In altre parole: lo studio di registrazione veniva impiegato come laboratorio per concepire, definire, combinare e fissare le idee musicali. Questa processualità della composizione ha dal suo canto una base istituzionale: i direttori delle nuove collane (Derma presso Decca, Harvest presso EMI, Vertigo presso Phonogram) e delle case discografiche indipendenti (Translatlantic, Island, Charisma, Virgin) mettevano a disposizione attrezzature, ingegneri del suono e tempi di lavorazione.
Anche gli altri due vertici del triangolo della musica d’arte – l’autore e l’interpretazione – subiscono dei mutamenti istituendo nuove relazioni. Qui si amplifica una tendenza già presente nella produzione dei Beatles: l’autorialità multipla. Tuttavia il fatto che i pezzi non siano riconducibili a un autore singolo non dipende più solamente dalla divisione delle competenze tra l’autore del testo poetico e quello della musica; i pezzi si costruiscono spesso come un mosaico alla realizzazione del quale collaborano diversi musicisti. Alla base di questo nuovo tipo di composizione sta la tecnica del montaggio, una tecnica che si è diffusa nella composizione scritta a partire da Stravinskij giungendo però qui a esiti radicali. Il montaggio viene realizzato mediante repentini mutamenti di strumentazione, tempo o metro, citazioni dirette o indirette di pezzi del repertorio barocco o classico, l’inserimento di sezioni senza tempo spesso atonali o rumoristiche, l’improvviso incremento della densità, i cambi di “scrittura” (monodia, omofonia, contrappunto, eterofonia), il carattere elaborativo delle sezioni strumentali che separano le strofe di una canzone. Esther’s Nose Job dei Soft Machine, Supper’s Ready dei Genesis e Close to the Edge degli Yes sono tra i più noti esempi di questo comporre per sezioni contrastanti.
Anche nel progressive rock emerge quella figura di compositore-esecutore che contrassegnava i gruppi di improvvisazione dell’avanguardia: Nuova Consonanza, AMM, New Phonic Art e Musica Elettronica Viva (Evangelisti, 1967; Cardew, 1971; Globokar, 1981). Tuttavia vi è una differenza importante: i gruppi di improvvisazione realizzano composizioni istantanee che non esistevano in nessuna forma prima del concerto e che cessano di esistere alla sua conclusione; in tal modo essi esercitano una critica al concetto tradizionale di opera finita e ripetibile. Questa critica non era necessaria nel campo del rock, in quanto l’usura del prodotto era già iscritta nel modo di produzione; i musicisti del progressive rock compiono il movimento contrario, cercano cioè di recuperare alla loro creatività un momento di durevolezza che è ostacolato dalla legge di mercato. Gli orientamenti, apparentemente opposti, dei gruppi di improvvisazione e di quelli del rock sperimentale possono essere visti come reazioni complementari ai vincoli che le istituzioni di riferimento pongono alla libera creazione. A questo intreccio si aggiunge, come ulteriore momento di complessità, la free music che nasce dalla libera improvvisazione del jazz europeo (Bailey, 1992; Prévost, 1995; Watson, 2004).
Nel progressive rock il rapporto tra composizione ed esecuzione si caratterizza in modo duplice: da un lato, essendo i componenti del gruppo anche esecutori della propria musica, non vi è distinzione personale tra compositore e interprete; dall’altro, i musicisti fungono in certa misura da interpreti di se stessi dal momento che la registrazione su disco diventa il punto di riferimento per il concerto. E’ vero che nella maggior parte dei casi il concerto non rappresenta una semplice esecuzione di un’opera la cui identità è pienamente fissata e immutabile; tuttavia il pezzo o la suite, che recano titoli precisi, vanno a costituire l’oggetto specifico da presentare ai fruitori. Durante il concerto, i gruppi sottopongono i pezzi a cambiamenti di vario tipo: le sezioni possono essere combinate diversamente tra di loro o con altri pezzi, si possono inserire improvvisazioni di uno o più strumenti. Malgrado questi cambiamenti, il prodotto mantiene alcune caratteristiche dell’“opera” così come essa si è definita nella sfera della musica d’arte, composta da cima a fondo. Nella tradizione della musica tonale l'opera musicale presenta due forme fenomeniche: testo e suono. Il testo è fisso ed è la condizione per cui l'opera viene tramandata; il suono è mobile ed è la condizione per cui l'opera viene recepita. L'opera rimane identica a se stessa nel variare delle interpretazioni; il testo funge da depositario e garante di questa identità. Questa doppia esistenza viene recuperata in modo eccentrico nel progressive rock: nel disco viene depositata l’idea, che può pertanto essere trasmessa agli ascoltatori contemporanei e anche a quelli futuri; il concerto è un modo di concretizzazione di quell’idea che può variare entro certi limiti per esigenze momentanee, per il cambio di alcuni componenti del gruppo o nell’interpretazione di un altro gruppo (fenomeno delle cover).

2. Progressive rock e avanguardia

Il rapporto che i musicisti del progressive rock instaurarono con la musica d’arte riguarda due momenti storici distinti: sul piano del materiale essi attingono ai repertori della musica barocca, classica, romantica e in modo selettivo al XX secolo (Bartók, Weill, Sibelius, Holst, Bernstein); nell’impiego creativo delle tecnologie fanno invece tesoro delle recenti esperienze della musica elettronica. Il riferimento retrospettivo può avvenire nella forma di rielaborazione di brani, per esempio l’intermezzo della Karelia Suite di Sibelius e del Sesto Concerto Brandeburghese di Bach in Ars longa, vita brevis dei Nice o di una sezione del terzo movimento della Quarta Sinfonia di Brahms in Fragile degli Yes. Oltre alle citazioni si riscontra tutta una ridda di riferimenti alle sonorità cameristiche e orchestrali nonché l’organizzazione formale di brevi brani in suites che ricordano quelle della musica strumentale barocca. Infine, l’impiego di alcune tastiere (Mellotron e Moog in particolare) consentono la realizzazione di un impasto timbrico denso il cui prototipo è l’apparato sinfonico del tardo Ottocento. Il secondo aspetto, quello dell’adozione di sonorità elettroniche, rappresenta un legame molto più profondo e complesso. I compositori attivi negli studi di musica elettronica (a Parigi, Colonia e Milano) lavoravano soprattutto in due ambiti: la produzione di nuovi suoni mediante generatori e la manipolazione di sonorità preesistenti (strumentali o vocali) grazie a procedure come filtraggi, trasposizioni, accelerazione, sovrapposizioni e montaggi. Gesang der Jünglinge e Kontakte di Karlheinz Stockhausen, Thema - Omaggio a Joyce e Visage di Luciano Berio, Aria (with Fontana Mix) di John Cage e La fabbrica illuminata di Luigi Nono sono opere paradigmatiche per il secondo ambito; esse aprirono le porte a una dimensione ampia composta di suoni naturali e artificiali che può essere definita come spazio elettroacustico. I casi in cui l’interazione tra uno strumentista o cantante e i suoni immagazzinati su nastro avviene durante l’esecuzione dal vivo mostrano noevoli momenti di tangenza con le esibizioni dei gruppi rock. In un saggio che si riferisce soprattutto ai Beatles, ai Grateful Dead e ai Mothers of Invention, Luciano Berio ha notato questa convergenza:

“Col suono elettronicamente manipolato del rock si ha una situazione abbastanza simile a quella della musica elettronica: se la fedeltà della riproduzione è sacrificata, il contenuto della registrazione ne soffre sproporzionatamente perché quello che si perde non può essere compensato dall’ascoltatore ed è, appunto, irrimediabilmente perduto. Avviene così che sia il rock che la musica elettronica – tutt’e due creature della radio e del suo macchinario di massa – siano paradossalmente incompatibili coi mezzi di diffusione che ne hanno provocato lo sviluppo. […] Microfoni, amplificatori, altoparlanti diventano quindi non solo una estensione delle voci e degli strumenti ma diventano strumenti essi stessi, sopraffacendo talvolta le qualità acustiche originali delle sorgenti sonore. Uno degli aspetti più seducenti dello stile vocale rock è, infatti, che non ne esiste alcuno. Le voci degli esecutori sono ingigantite in tutta la loro naturalità e tipicità, istituendo con gli stili di canto formalizzati lo stesso tipo di relazione che, in un film, il primissimo piano di un viso istituisce con un ritratto classico.” (Berio, 1967: 129)

I contatti tra i compositori di avanguardia e i rappresentanti dell’underground londinese furono sporadici ma indicativi per la presenza di un territorio comune. Berio tenne una conferenza presso l’Istituto Italiano di Londra nel 1965, presentando le sue opere per nastro e discutendo il suo trattamento della voce (Miles, 2002: 105-106). Stockhausen e Cage vengono spesso menzionati come punti di riferimento da musicisti rock. Il gruppo di improvvisazione AMM, di cui faceva parte Cornelius Cardew, compositore che aveva frequentato gli Internationale Ferienkurse für Neue Musik di Darmstadt ed era stato assistente di Stockhausen, si esibiva in locali e festival in cui si potevano ascoltare i Pink Floyd e i Soft Machine; il produttore del primo disco di questo gruppo, Peter Jenner, era anche il manager dei Pink Floyd. Nell’ampia compagine musicale della capitale britannica si incontrano spesso figure di confine che svolgevano un importante ruolo di mediazione per stili e tecniche: Eddi Prévost, Keith Tippett, John Surman e Brian Eno sono i nomi più noti. Tra i gruppi in cui si integravano diverse esperienze musicali va ricordata la Music Improvisation Company (Derek Bailey, Evan Parker, Jamie Muir e Hugh Davis). Significativa è anche la breve esperienza del gruppo Whole World, che si formò nel 1970 dall’incontro tra Kevin Ayers (ex Soft Machine), David Bedford (che aveva studiato composizione con Lennox Berkeley e Luigi Nono), il sassofonista jazz Lol Coxhill e il chitarrista rock Mike Olfield. La commistione di stili e culture musicali è ben rappresentata dal festival che si tenne ad Amougies (Belgio) nei giorni 24-27 ottobre 1969, che radunava i maggiori rappresentanti del progressive rock e della musica sperimentale di frontiera: Pink Floyd, Renaissance, Nice, Caravan, Yes, East of Eden, Soft Machine, Gong, Captain Beefheart, Frank Zappa, Keith Tippett,  Art Ensemble of Chicago, Don Cherry, Archie Shepp, Antony Braxton, Steve Lacy, Robin Keniatta, John Surman, Musica Elettronica Viva e molti altri.
Terry Riley è stato sicuramente il compositore che più direttamente ha influenzato il progressive rock. Daevid Allen, uno dei capostipiti della cosiddetta “scuola di Canterbury” ebbe intensi scambi con lui durante il suo soggiorno a Parigi a metà degli anni Sessanta; con Riley sperimentò diverse tecniche di loop (Camilleri, Rizzardi in questo sito). Il legame con il compositore californiano emerge con particolare evidenza nel concerto che si tenne il 13 agosto 1970 alla Royal Albert Hall: un quintetto di tastieristi di diversa provenienza (Tim Souster, Andrew Powell, Roger Smalley, Mike Ratledge, Robin Thompson) propose un’interpretazione dei Keyboard Studies di Riley; dopo di che la BBC Symphony Orchestra eseguì la composizione Triple Music II di Souster e il gruppo Soft Machine presentò Out-Bloody-Rageous, Facelift e Esther’s Nose Job. Il primo di questi pezzi si apre con un nastro magnetico, su cui è registrato un pezzo per solo organo basato su ripetizioni figurali nello stile di Riley, che viene fatto scorrere a ritroso. Nei gruppi rock il loop, come ogni altra tecnica, tende a essere semantizzato, cioè ad accogliere in sé significati che non gli appartenevano in origine.
Il discorso sui rapporti di influenza nel campo del rock è particolarmente impervio. Nella ricerca storica tradizionale essi vengono studiati a partire da indizi che spesso sono lasciati dai compositori stessi. A parte pochissime eccezioni, i musicisti rock non pubblicarono testi che somiglino anche lontanamente a una poetica o che perlomeno contengano tracce di riflessioni preliminari a un processo di ricezione; le interviste dell’epoca, rilasciate spesso a scopo promozionale, non esprimono contenuti teorici e, qualora contengano qualche indizio, esso va accuratamente soppesato. In una sfera culturale dove la pratica prevale sulla teoria, il fare sul dire e lo spazio tradizionale della riflessione è spesso occupato dalla meditazione o dall’esplorazione della psiche, il punto di osservazione privilegiato è rappresentato dalla musica; bisogna cioè studiare le problematiche storiche che si lasciano evidenziare a partire dalla sua costituzione. La direzione opposta di questo rapporto – che impatto possa avere avuto il rock sulla composizione scritta - si può valere del supporto dei testi che quasi tutti i compositori dell’avanguardia pubblicarono; il loro discorso rimane però generalmente interno alla sfera culturale in cui operano e il caso sopra citato di Berio, che dedicò un approfondito studio al rock, è unico.
Henri Pousseur, che in Votre Faust impiegò un’elaborazione della canzone We shall overcome, si è soffermato sui risvolti politici dei “suoni selvaggi” che vengono prodotti nelle improvvisazioni con live electronics. L’estetica “informale”, che sostiene l’operato di gruppi di compositori-improvvisatori come Musica Elettronica Viva e Sonic Art Group, considera ritmi e sviluppi periodici, figure riconoscibili e il “bel suono” come rappresentanti di una cultura esclusivista e usurpatrice. Proprio questo uso critico di materiale non addomesticato lascia trasparire una profonda differenza con la produzione della popular music, “i cui elementi mobili di profondità non sono diversi, ma che (alla stregua di quasi tutto il jazz) cerca in certe articolazioni ereditate, per quanto esse possa essere residue, degradate e impoverite (talvolta sono invece arricchite in una maniera nuova, in qualche modo laterale), i mezzi di comunicare appelli alla rivolta o perlomeno espressioni di distanziamento” (Pousseur, 1970: 180). L’individuazione di questo legame, esplicito e ricercato, con la critica alle istituzioni induce Pousseur a tracciare una linea di demarcazione tra questa “arte popolare di contestazione” e la musica di intrattenimento; nell’esibizione della corporeità del suono, nell’impatto immediato e fisiologico di sonorità aspre e irritanti, egli individua l’indice di una prossimità con la musica elaborata elettronicamente dal vivo dei gruppi di improvvisazione totale.
L’interesse che i compositori di formazione tradizionale mostrarono per la musica rock attorno al 1968 ha a che fare con una questione ereditata dall’estetica romantica: quella di trovare un equilibrio tra innovazione e comunicazione. Tale questione assume ora una portata dirompente a causa del convergere di diverse tendenze: la crescente importanza che i concetti di popolo e massa hanno assunto nella vita sociale; la tendenza all’espansione planetaria dell’industria discografica (che trascina con sé anche sfere fino ad allora considerate antitetiche al mercato); la graduale perdita di normatività del repertorio classico-romantico. La musica d’arte della tradizione occidentale sembra fallire proprio nel suo mandato di diventare lingua universale; il suo posto viene occupato gradualmente dal rock, un genere che è intimamente legato ai media elettronici (disco, radio, televisione). In questo nuovo ambito creativo si crea lo spazio per una convergenza tra istanze sperimentali e orientamento popolare (Martin, 1998: 180-182). La sintesi culturale che sta all’origine del rock crea le premesse per ridefinire rapporti che negli stessi decenni cominciavano a mostrare un lato problematico: quello tra scrittura e oralità, mente e corpo, esecuzione e improvvisazione, suono e rumore. Il rock propone un modello di comunicazione musicale in cui l’impiego di sonorità grezze e l’avanzamento della dimensione gestuale non sfociano in un linguaggio ermetico, ma permettono di raggiungere un pubblico vasto, socialmente disomogeneo e culturalmente non più classificabile. Probabilmente sono queste caratteristiche che attiravano l’attenzione di Dieter Schnebel, quando, rispondendo a una domanda di Hansjörg Pauli, dichiarò:

“Ciò che mi interessa in modo particolare è che la musica pop richiede quello stesso ascolto dissociativo [un ascolto che si concentra sulle azioni del produrre suoni]. Questa musica ha davvero raggiunto la coscienza di amplissimi strati sociali. Ma se si ascoltano la nuova musica e la musica pop con le stesse orecchie, si scopre – il mio ragionamento parte dal nostro versante, cioè dalla nuova musica – che attualmente attraverso la musica pop rientrano alcuni aspetti che sono stati introdotti dalla nuova musica; in quell’ambito ci sono pezzi che suonano come se fossero passati per l’esperienza di Cage” (Schnebel, 1972: 364).

Sebbene l’interesse per le nuove tecnologie rappresenti – come notava Berio - un terreno comune per i compositori che operano nel quadro delle istituzioni tradizionali e i compositori-esecutori del progressive rock, questi ultimi sfruttarono a tutto campo la varietà di opzioni offerta dai mezzi elettronici. Si possono infatti individuare almeno tre campi in cui la creazione musicale si interseca con la tecnologia: 1. Lo studio di registrazione come strumento aggiuntivo per la messa a punto dei pezzi; 2. L’uso di strumenti elettrici e dispositivi di trasformazione del suono durante il concerto; 3. L’impiego di luci e proiezioni durante il concerto.
Sul primo punto si soffermano i contributi di Rizzardi e Camilleri pubblicati su questo sito. Il secondo punto riguarda la particolare “orchestrazione” che contribuisce a definire l’identità stilistica di ciascun gruppo e talvolta contraddistingue determinati brani. In tale contesto l’uso creativo delle tecnologie si intreccia con una questione tipicamente compositiva, quella dell’organizzazione dei timbri. La preoccupazione per la buona riuscita dell’impasto timbrico, che è dimostrata dall’accurato lavoro di tutti i gruppi presi qui in esame, non può essere spiegata come conseguenza di una strategia di mercato. In tutti i casi l’organico devia da quello tipico dei gruppi skiffle, beat, blues e rock and roll inglesi (due chitarre, una solista e l’altra ritmica, basso elettrico e batteria) innanzitutto per la rilevanza delle tastiere. Esse definiscono in modo specifico la sonorità del progressive rock, rappresentando al contempo un marcatore culturale: nel mondo occidentale il pianoforte è uno dei requisiti dell’appartamento borghese, è lo strumento base della didattica del Conservatorio ed è il mezzo più adatto a un unico musicista per abbozzare o “leggere” brani orchestrali. Il suo parente prossimo, l’organo, è un altro mezzo favorito di trasmissione del sapere e della pratica musicale, essendo presente in ogni chiesa. A questo si aggiunge il fatto che la Gran Bretagna ebbe negli anni Sessanta scuole pianistiche di altissimo rilievo e ciò ebbe certamente ripercussioni anche al di fuori delle accademie. Nei gruppi che abbiamo preso in considerazione, l’organista o il pianista alterna diversi strumenti elettrici (in alcuni casi anche il pianoforte acustico) che contribuiscono in modo decisivo a produrre la sonorità densa e multicolore che li caratterizza. La scelta e la combinazione degli strumenti a tastiera è un fattore determinante per la fisionomia di ognuno di questi musicisti; a ciò si aggiunge lo stile esecutivo, che è sempre inconfondibile in quanto sviluppatosi da un’esperienza mista, da un itinerario personale di apprendimento.
Nel gruppo ELP, Keith Emerson suona come solista in una formazione di tre elementi, nella quale può esibire la sua rapidità e la sua inventiva in a soli che svolgono una funzione analoga a quelli del jazz, cioè seguono a una sezione tematica a mo’ di variazione; a seconda del carattere dei pezzi, Emerson usa l’organo Hammond, il sintetizzatore Moog e il pianoforte acustico. Mike Ratledge dei Soft Machine adopera un organo Lowrey Holiday Deluxe, a cui aggiunge nel 1969 un Hohner Pianet che a sua volta viene sostituito nel 1971 da un Fender Rhodes (lo stesso che utilizza Ian Hammer nel gruppo di Miles Davis) con un’unità Echoplex. Talvolta Ratledge applica un Shaftesbury Duo-fuzz al Lowrey, al fine di creare un timbro e un’incisività simile a quelli della chitarra elettrica, nonché altri dispositivi di trasformazione timbrica come il wha wha. Le caratteristiche dell’organo Lowrey condizionarono il suo stile esecutivo per blocchi sonori collegati senza pause (Bennett, 2005: 91); gli a soli, che spesso servono da collegamento tra due sezioni composte, si ispirano ai decorsi cromatici di Thelonius Monk e Cecil Taylor. Kerry Minnear dei Gentle Giant opera generalmente su tre gruppi di tastiere: un organo Hammond, un Hohner Clavinet 506 e un Moog; il suono del Clavinet è particolarmente adatto a uno stile contrappuntistico che necessita di chiarezza timbrica e precisione ritmica. Il tastierista dei Van der Graaf Generator, Hugh Banton, impiega un organo Hammond e un piano Farfisa Professional; diverse apparecchiature per la trasformazione del suono (phasing, eco, distorsioni e overdrive) gli permettevano di creare amalgami inediti con i sassofoni, la voce di Peter Hammill e le successioni accordali che quest’ultimo eseguiva sull’Hohner Pianet; l’equilibro timbrico del gruppo è comunque peculiare in quanto, a partire da Pawn Hearts è assente il basso elettrico. Sul piano storico, sebbene abbia tratti idiomatici completamente diversi, l’espansione timbrica del pianoforte che ha luogo nelle tastiere elettroniche dei gruppi progressive può essere interpretata come fenomeno parallelo alla trasformazione del pianoforte acustico che nei circoli dell’avanguardia era stata introdotta da John Cage e che veniva coltivata dalla “nuova scuola pianistica inglese”, da John Tilbury, John White, Dave Smith, Hugh Shrapnell, Michael Parsons e Howard Skempton (Walker, 2001).    

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1. Composizione e sperimentazione / Progressive rock e avanguardia


2. Unità
nell'eclettismo? / Il gruppo come unità creativa


3. Lo sgretolamento della forma canzone /
Il progressive rock alla prova dell'analisi musicale... e viceversa


4. Le espressioni musicali della controcultura / Il "gruppo" sul palco / Epilogo

 

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