|
GIANMARIO
BORIO - SERENA FACCI Quarant'anni
dopo... Una musicologia
pluralistica per il rock britannico
(*) 1.
Composizione e sperimentazione I saggi e gli interventi pubblicati in questo sito sono dedicati a una
tendenza della popular music che, originatasi in Gran Bretagna nel corso degli
anni Sessanta del XX secolo, ebbe ripercussioni in diverse parti del mondo. I
suoi limiti storico-temporali sono fluidi e variabili a seconda che lo si osservi
dal punto di vista culturale e politico o da quello delle pratiche musicali. Gli
aspetti salienti emergono nei pezzi di King Crimson, Genesis, Gentle Giant, Henry
Cow, Pink Floyd, Soft Machine, Van der Gaaf Generator e Yes che vengono discussi
nei contributi che potete leggere qui di seguito. Nella saggistica corrente questa
koiné viene comunemente definita con il termine
progressive rock (Macan, 1997; Stump,
1997; Martin, 1998; Holm-Hudson 2002; Pirenne, 2005), che però, essendo tratto
dall’apparato promozionale di quegli stessi prodotti, è caratterizzato da considerevoli
ambiguità. L’aggettivo progressive
serve infatti, a seconda dei casi, a definire l’atteggiamento integrativo rispetto
ai materiali e agli stili musicali, l’indipendenza nei confronti dell’industria
discografica, la spinta al progresso e al rinnovamento del linguaggio, il legame
con la controcultura e i movimenti di contestazione. Anziché sostituire tale termine,
ormai assai diffuso, con un neologismo, abbiamo preferito concentrare la nostra
attenzione su un nesso – quello di composizione e sperimentazione – la cui delucidazione
dovrebbe permettere di evitare l’appiattimento della teoria sui presupposti extrateorici
del marketing e di approfondire le questioni più rilevanti che quella produzione
ha posto. L’approccio eclettico, che attinge ai metodi della musicologia storica
e dell’etnomusicologia nonché agli studi della popular
music e del jazz, è determinato dalla molteplicità di aspetti delle
creazioni che stiamo studiando. Il progressive
rock non appartiene in modo esclusivo né alla tradizione orale né a
quella scritta; le sue creazioni non sono analizzabili in modo esaustivo né secondo
i principi della teoria musicale tradizionale né adottando unilateralmente le
procedure della sociologia, dell’antropologia o della semiologia; l’origine e
la breve storia di questo stile non si lasciano spiegare secondo la tipica dialettica
di continuità e rottura con il passato, mentre, d’altro canto, le sue realizzazioni
non si possono ridurre a prodotti industriali privi di storia (Borio, 2003). La
ricchezza e peculiarità degli strati culturali rappresentano aspetti affascinanti
e lanciano al contempo una sfida alle discipline istituzionali. L’esperienza del
convegno, che si riflette nei contributi, è stata un esercizio di musicologia
pluralistica in cui vengono superate le rigide divisioni in settori. Composizione e sperimentazione – i due concetti che abbiamo ritenuto
centrali per questo ambito creativo - richiamano il legame del progressive
rock con la tradizione della musica d’arte, che nel linguaggio comune
viene definita “classica”. La pretesa di valore artistico, che si sovrappone e
in certi casi si sostituisce alla funzione di intrattenimento e alle finalità
economiche, si manifesta su diversi piani: la lunghezza e la complessità dei pezzi,
il loro raggruppamento in suites
o strutture formali di ampie dimensioni, la scelta di testi ermetici, surreali
e comunque dal contenuto estraneo alle consuetudini del blues e del rock and roll,
l’impiego di dissonanze e rumori, la richiesta più o meno esplicita di un ascolto
concentrato. Tutti questi elementi segnalano una prossimità con la cultura musicale
dei conservatori, delle accademie e dei festival di musica contemporanea, che
è tanto più degna di nota quanto è stata considerata con scetticismo dai protagonisti.
Tuttavia sarebbe fuorviante ricondurre, senza alcuna mediazione, le creazioni
del progressive rock al quadro dell’evoluzione
storica della musica d’arte. Uno dei fattori di interesse per la musicologia storica
è proprio il loro collocarsi in modo trasversale nei confronti delle categorie
storiografiche ed estetiche. Una riflessione su che cosa possa significare la
parola “composizione” in un repertorio le cui radici ultime affondano nella musica
popolare, in un repertorio che è cioè extraterritoriale rispetto alle tradizioni
della sinfonia e dei quartetti, induce a esaminare uno dei capisaldi della musica
occidentale in una prospettiva che è insieme interna ed esterna. Il
termine “composizione” è diffuso nei trattati sulla musica delle lingue europee
a partire dal IX secolo. Nella sua complessa storia esso non ha mai perso contatto
con la sua radice etimologica: comporre significa “mettere insieme”, combinare
elementi basilari del sistema sonoro creando un’unità superiore (Bandur, 1996).
Con l’evolversi della notazione dell’Occidente, il concetto di composizione si
è sempre più strettamente collegato a due fattori: la concezione polifonica, per
cui composizione significa unificazione di voci simultanee in una sonorità globale
che trascende il senso specifico delle sue componenti, e la scrittura che fissa
il pensiero di un autore su un supporto trasportabile. Sebbene le relazioni tra
la composizione come testo e la sua manifestazione sonora siano state soggette
a continue oscillazioni, non vi è dubbio che l’evoluzione del sistema semiografico
e la progettazione di strutture sonore sempre più complesse sono due fenomeni
correlati che tendono verso una fissazione sempre più precisa del testo (Borio,
2004). La realizzazione grafica viene considerata come garanzia del fatto che
l’idea dell’autore emergerà in ogni esecuzione, anche in quelle delle generazioni
successive. Una volta completata, la partitura si candida a entrare nel pantheon
dei capolavori o comunque nel canone di opere che formano il repertorio e il fondamento
del sapere musicale. La
cultura che culminò nell’affermarsi del linguaggio tonale e nell’emancipazione
della musica strumentale si contraddistingue per un rapporto tra tre entità: l’autore,
la partitura e la sua esecuzione. Una delle conseguenze di questo triangolo è
che l’esecuzione (il suono) è da un lato separabile dalla composizione (che si
oggettiva nel testo); dall’altro l’idea di interpretazione è iscritta per così
dire ontologicamente nella musica; ciò significa che per questa cultura non vi
è musica senza la sua interpretazione. Se si prendono in esame diverse creazioni
del progressive rock, si nota che
questo rapporto triangolare non si dissolve (come avviene in molta popular music) ma si ridefinisce secondo una modalità inedita.
Innanzitutto la dimensione della scrittura – il carattere di testo – si sdoppia:
da un lato, momenti di scrittura possono apparire nelle fasi iniziali del processo
compositivo; dall’altro lato, la registrazione in studio assume diverse caratteristiche
che nella musica d’arte sono proprie della scrittura. Questo scambio di funzioni
tra scrittura su pentagramma e scrittura su nastro (o disco) è indicativo per
il mutamento di concezione della composizione. Le ragioni per le quali i componenti
dei gruppi rinunciarono alla notazione come medium della trasmissione delle loro
creazioni raramente dipendono dal fatto che essi erano illetterati sul piano musicale.
Si possono individuare almeno due altri fattori, di ordine più generale, che determinarono
il passaggio in secondo piano della scrittura: innanzitutto la notazione della
musica occidentale non permette di rendere in modo adeguato le misture timbriche
e le escursioni dinamiche che vengono perseguite da questi musicisti; in secondo
luogo, lo studio di registrazione offre una potente alternativa alla scrittura
tradizionale, permettendo ai musicisti di tradurre direttamente in suono le loro
idee e di modificarle in corso d’opera. In altre parole: lo studio di registrazione
veniva impiegato come laboratorio per concepire, definire, combinare e fissare
le idee musicali. Questa processualità della composizione ha dal suo canto una
base istituzionale: i direttori delle nuove collane (Derma presso Decca, Harvest
presso EMI, Vertigo presso Phonogram) e delle case discografiche indipendenti
(Translatlantic, Island, Charisma, Virgin) mettevano a disposizione attrezzature,
ingegneri del suono e tempi di lavorazione. Anche
gli altri due vertici del triangolo della musica d’arte – l’autore e l’interpretazione
– subiscono dei mutamenti istituendo nuove relazioni. Qui si amplifica una tendenza
già presente nella produzione dei Beatles: l’autorialità multipla. Tuttavia il
fatto che i pezzi non siano riconducibili a un autore singolo non dipende più
solamente dalla divisione delle competenze tra l’autore del testo poetico e quello
della musica; i pezzi si costruiscono spesso come un mosaico alla realizzazione
del quale collaborano diversi musicisti. Alla base di questo nuovo tipo di composizione
sta la tecnica del montaggio, una tecnica che si è diffusa nella composizione
scritta a partire da Stravinskij giungendo però qui a esiti radicali. Il montaggio
viene realizzato mediante repentini mutamenti di strumentazione, tempo o metro,
citazioni dirette o indirette di pezzi del repertorio barocco o classico, l’inserimento
di sezioni senza tempo spesso atonali o rumoristiche, l’improvviso incremento
della densità, i cambi di “scrittura” (monodia, omofonia, contrappunto, eterofonia),
il carattere elaborativo delle sezioni strumentali che separano le strofe di una
canzone. Esther’s Nose Job dei Soft
Machine, Supper’s Ready dei Genesis e Close
to the Edge degli Yes sono tra i più noti esempi di questo comporre
per sezioni contrastanti. Anche nel progressive rock emerge quella figura di compositore-esecutore
che contrassegnava i gruppi di improvvisazione dell’avanguardia: Nuova Consonanza,
AMM, New Phonic Art e Musica Elettronica Viva (Evangelisti, 1967; Cardew, 1971;
Globokar, 1981). Tuttavia vi è una differenza importante: i gruppi di improvvisazione
realizzano composizioni istantanee che non esistevano in nessuna forma prima del
concerto e che cessano di esistere alla sua conclusione; in tal modo essi esercitano
una critica al concetto tradizionale di opera finita e ripetibile. Questa critica
non era necessaria nel campo del rock, in quanto l’usura del prodotto era già
iscritta nel modo di produzione; i musicisti del progressive rock compiono il movimento contrario, cercano cioè
di recuperare alla loro creatività un momento di durevolezza che è ostacolato
dalla legge di mercato. Gli orientamenti, apparentemente opposti, dei gruppi di
improvvisazione e di quelli del rock sperimentale possono essere visti come reazioni
complementari ai vincoli che le istituzioni di riferimento pongono alla libera
creazione. A questo intreccio si aggiunge, come ulteriore momento di complessità,
la free music che nasce dalla libera improvvisazione
del jazz europeo (Bailey, 1992; Prévost, 1995; Watson, 2004). Nel
progressive rock il rapporto tra
composizione ed esecuzione si caratterizza in modo duplice: da un lato, essendo
i componenti del gruppo anche esecutori della propria musica, non vi è distinzione
personale tra compositore e interprete; dall’altro, i musicisti fungono in certa
misura da interpreti di se stessi dal momento che la registrazione su disco diventa
il punto di riferimento per il concerto. E’ vero che nella maggior parte dei casi
il concerto non rappresenta una semplice esecuzione di un’opera la cui identità
è pienamente fissata e immutabile; tuttavia il pezzo o la suite, che recano titoli precisi, vanno a
costituire l’oggetto specifico da presentare ai fruitori. Durante il concerto,
i gruppi sottopongono i pezzi a cambiamenti di vario tipo: le sezioni possono
essere combinate diversamente tra di loro o con altri pezzi, si possono inserire
improvvisazioni di uno o più strumenti. Malgrado questi cambiamenti, il prodotto
mantiene alcune caratteristiche dell’“opera” così come essa si è definita nella
sfera della musica d’arte, composta da cima a fondo. Nella tradizione della musica
tonale l'opera musicale presenta due forme fenomeniche: testo e suono. Il testo
è fisso ed è la condizione per cui l'opera viene tramandata; il suono è mobile
ed è la condizione per cui l'opera viene recepita. L'opera rimane identica a se
stessa nel variare delle interpretazioni; il testo funge da depositario e garante
di questa identità. Questa doppia esistenza viene recuperata in modo eccentrico
nel progressive rock: nel disco viene depositata
l’idea, che può pertanto essere trasmessa agli ascoltatori contemporanei e anche
a quelli futuri; il concerto è un modo di concretizzazione di quell’idea che può
variare entro certi limiti per esigenze momentanee, per il cambio di alcuni componenti
del gruppo o nell’interpretazione di un altro gruppo (fenomeno delle cover).
2.
Progressive rock e avanguardia Il
rapporto che i musicisti del progressive rock
instaurarono con la musica d’arte riguarda due momenti storici distinti:
sul piano del materiale essi attingono ai repertori della musica barocca, classica,
romantica e in modo selettivo al XX secolo (Bartók, Weill, Sibelius, Holst, Bernstein);
nell’impiego creativo delle tecnologie fanno invece tesoro delle recenti esperienze
della musica elettronica. Il riferimento retrospettivo può avvenire nella forma
di rielaborazione di brani, per esempio l’intermezzo della Karelia
Suite di Sibelius e del Sesto Concerto Brandeburghese di Bach in Ars
longa, vita brevis dei Nice o di una sezione del terzo movimento della
Quarta Sinfonia di Brahms in Fragile degli Yes. Oltre alle citazioni si
riscontra tutta una ridda di riferimenti alle sonorità cameristiche e orchestrali
nonché l’organizzazione formale di brevi brani in suites
che ricordano quelle della musica strumentale barocca. Infine, l’impiego di alcune
tastiere (Mellotron e Moog in particolare) consentono la realizzazione di un impasto
timbrico denso il cui prototipo è l’apparato sinfonico del tardo Ottocento. Il
secondo aspetto, quello dell’adozione di sonorità elettroniche, rappresenta un
legame molto più profondo e complesso. I compositori attivi negli studi di musica
elettronica (a Parigi, Colonia e Milano) lavoravano soprattutto in due ambiti:
la produzione di nuovi suoni mediante generatori e la manipolazione di sonorità
preesistenti (strumentali o vocali) grazie a procedure come filtraggi, trasposizioni,
accelerazione, sovrapposizioni e montaggi. Gesang
der Jünglinge e Kontakte di Karlheinz Stockhausen, Thema
- Omaggio a Joyce e Visage di Luciano Berio,
Aria (with Fontana Mix) di John Cage e La fabbrica illuminata di Luigi Nono sono
opere paradigmatiche per il secondo ambito; esse aprirono le porte a una dimensione
ampia composta di suoni naturali e artificiali che può essere definita come spazio
elettroacustico. I casi in cui l’interazione tra uno strumentista o cantante e
i suoni immagazzinati su nastro avviene durante l’esecuzione dal vivo mostrano
noevoli momenti di tangenza con le esibizioni dei gruppi rock. In un saggio che
si riferisce soprattutto ai Beatles, ai Grateful Dead e ai Mothers of Invention,
Luciano Berio ha notato questa convergenza: “Col suono elettronicamente manipolato del rock si ha una situazione abbastanza simile
a quella della musica elettronica: se la fedeltà della riproduzione è sacrificata,
il contenuto della registrazione ne soffre sproporzionatamente perché quello che
si perde non può essere compensato dall’ascoltatore ed è, appunto, irrimediabilmente
perduto. Avviene così che sia il rock che la musica elettronica – tutt’e due
creature della radio e del suo macchinario di massa – siano paradossalmente incompatibili
coi mezzi di diffusione che ne hanno provocato lo sviluppo. […] Microfoni, amplificatori,
altoparlanti diventano quindi non solo una estensione delle voci e degli strumenti
ma diventano strumenti essi stessi, sopraffacendo talvolta le qualità acustiche
originali delle sorgenti sonore. Uno degli aspetti più seducenti dello stile vocale
rock è, infatti, che non ne esiste alcuno.
Le voci degli esecutori sono ingigantite in tutta la loro naturalità e tipicità,
istituendo con gli stili di canto formalizzati lo stesso tipo di relazione che,
in un film, il primissimo piano di un viso istituisce con un ritratto classico.”
(Berio, 1967: 129) I
contatti tra i compositori di avanguardia e i rappresentanti dell’underground
londinese furono sporadici ma indicativi per la presenza di un territorio comune.
Berio tenne una conferenza presso l’Istituto Italiano di Londra nel 1965, presentando
le sue opere per nastro e discutendo il suo trattamento della voce (Miles, 2002:
105-106). Stockhausen e Cage vengono spesso menzionati come punti di riferimento
da musicisti rock. Il gruppo di improvvisazione AMM, di cui faceva parte Cornelius
Cardew, compositore che aveva frequentato gli Internationale
Ferienkurse für Neue Musik di Darmstadt ed era stato assistente di
Stockhausen, si esibiva in locali e festival in cui si potevano ascoltare i Pink
Floyd e i Soft Machine; il produttore del primo disco di questo gruppo, Peter
Jenner, era anche il manager dei Pink Floyd. Nell’ampia compagine musicale della
capitale britannica si incontrano spesso figure di confine che svolgevano un importante
ruolo di mediazione per stili e tecniche: Eddi Prévost, Keith Tippett, John Surman
e Brian Eno sono i nomi più noti. Tra i gruppi in cui si integravano diverse esperienze
musicali va ricordata la Music Improvisation Company (Derek Bailey, Evan Parker,
Jamie Muir e Hugh Davis). Significativa è anche la breve esperienza del gruppo
Whole World, che si formò nel 1970 dall’incontro tra Kevin Ayers (ex Soft Machine),
David Bedford (che aveva studiato composizione con Lennox Berkeley e Luigi Nono),
il sassofonista jazz Lol Coxhill e il chitarrista rock Mike Olfield. La commistione
di stili e culture musicali è ben rappresentata dal festival che si tenne ad Amougies
(Belgio) nei giorni 24-27 ottobre 1969, che radunava i maggiori rappresentanti
del progressive rock e della musica
sperimentale di frontiera: Pink Floyd, Renaissance, Nice, Caravan, Yes, East of
Eden, Soft Machine, Gong, Captain Beefheart, Frank Zappa, Keith Tippett, Art
Ensemble of Chicago, Don Cherry, Archie Shepp, Antony Braxton, Steve Lacy, Robin
Keniatta, John Surman, Musica Elettronica Viva e molti altri. Terry Riley è stato sicuramente il compositore che più direttamente ha
influenzato il progressive rock. Daevid Allen, uno dei capostipiti della cosiddetta
“scuola di Canterbury” ebbe intensi scambi con lui durante il suo soggiorno a
Parigi a metà degli anni Sessanta; con Riley sperimentò diverse tecniche di loop
(Camilleri, Rizzardi in questo sito). Il legame con il compositore californiano
emerge con particolare evidenza nel concerto che si tenne il 13 agosto 1970 alla
Royal Albert Hall: un quintetto di tastieristi di diversa provenienza (Tim Souster,
Andrew Powell, Roger Smalley, Mike Ratledge, Robin Thompson) propose un’interpretazione
dei Keyboard Studies di Riley; dopo
di che la BBC Symphony Orchestra eseguì la composizione Triple
Music II di Souster e il gruppo Soft Machine presentò Out-Bloody-Rageous,
Facelift e Esther’s
Nose Job. Il primo di questi pezzi si apre con un nastro magnetico,
su cui è registrato un pezzo per solo organo basato su ripetizioni figurali nello
stile di Riley, che viene fatto scorrere a ritroso. Nei gruppi rock il loop, come
ogni altra tecnica, tende a essere semantizzato, cioè ad accogliere in sé significati
che non gli appartenevano in origine. Il
discorso sui rapporti di influenza nel campo del rock è particolarmente impervio.
Nella ricerca storica tradizionale essi vengono studiati a partire da indizi che
spesso sono lasciati dai compositori stessi. A parte pochissime eccezioni, i musicisti
rock non pubblicarono testi che somiglino anche lontanamente a una poetica o che
perlomeno contengano tracce di riflessioni preliminari a un processo di ricezione;
le interviste dell’epoca, rilasciate spesso a scopo promozionale, non esprimono
contenuti teorici e, qualora contengano qualche indizio, esso va accuratamente
soppesato. In una sfera culturale dove la pratica prevale sulla teoria, il fare
sul dire e lo spazio tradizionale della riflessione è spesso occupato dalla meditazione
o dall’esplorazione della psiche, il punto di osservazione privilegiato è rappresentato
dalla musica; bisogna cioè studiare le problematiche storiche che si lasciano
evidenziare a partire dalla sua costituzione. La direzione opposta di questo rapporto
– che impatto possa avere avuto il rock sulla composizione scritta - si può valere
del supporto dei testi che quasi tutti i compositori dell’avanguardia pubblicarono;
il loro discorso rimane però generalmente interno alla sfera culturale in cui
operano e il caso sopra citato di Berio, che dedicò un approfondito studio al
rock, è unico. Henri Pousseur, che in Votre Faust impiegò un’elaborazione della
canzone We shall overcome, si è
soffermato sui risvolti politici dei “suoni selvaggi” che vengono prodotti nelle
improvvisazioni con live electronics. L’estetica “informale”, che sostiene l’operato
di gruppi di compositori-improvvisatori come Musica Elettronica Viva e Sonic
Art Group, considera ritmi e sviluppi periodici, figure riconoscibili
e il “bel suono” come rappresentanti di una cultura esclusivista e usurpatrice.
Proprio questo uso critico
di materiale non addomesticato lascia trasparire una profonda differenza con la
produzione della popular music, “i cui elementi mobili di profondità non sono diversi,
ma che (alla stregua di quasi tutto il jazz) cerca in certe articolazioni ereditate,
per quanto esse possa essere residue, degradate e impoverite (talvolta sono invece
arricchite in una maniera nuova, in qualche modo laterale), i mezzi di comunicare
appelli alla rivolta o perlomeno espressioni di distanziamento” (Pousseur, 1970:
180). L’individuazione di questo legame, esplicito e ricercato, con la critica
alle istituzioni induce Pousseur a tracciare una linea di demarcazione tra questa
“arte popolare di contestazione” e la musica di intrattenimento; nell’esibizione
della corporeità del suono, nell’impatto immediato e fisiologico di sonorità aspre
e irritanti, egli individua l’indice di una prossimità con la musica elaborata
elettronicamente dal vivo dei gruppi di improvvisazione totale. L’interesse che i compositori di formazione tradizionale mostrarono per
la musica rock attorno al 1968 ha a che fare con una questione ereditata dall’estetica
romantica: quella di trovare un equilibrio tra innovazione e comunicazione. Tale
questione assume ora una portata dirompente a causa del convergere di diverse
tendenze: la crescente importanza che i concetti di popolo e massa hanno assunto
nella vita sociale; la tendenza all’espansione planetaria dell’industria discografica
(che trascina con sé anche sfere fino ad allora considerate antitetiche al mercato);
la graduale perdita di normatività del repertorio classico-romantico. La musica
d’arte della tradizione occidentale sembra fallire proprio nel suo mandato di
diventare lingua universale; il suo posto viene occupato gradualmente dal rock,
un genere che è intimamente legato ai media elettronici (disco, radio, televisione).
In questo nuovo ambito creativo si crea lo spazio per una convergenza tra istanze
sperimentali e orientamento popolare (Martin, 1998: 180-182). La sintesi culturale
che sta all’origine del rock crea le premesse per ridefinire rapporti che negli
stessi decenni cominciavano a mostrare un lato problematico: quello tra scrittura
e oralità, mente e corpo, esecuzione e improvvisazione, suono e rumore. Il rock
propone un modello di comunicazione musicale in cui l’impiego di sonorità grezze
e l’avanzamento della dimensione gestuale non sfociano in un linguaggio ermetico,
ma permettono di raggiungere un pubblico vasto, socialmente disomogeneo e culturalmente
non più classificabile. Probabilmente sono queste caratteristiche che attiravano
l’attenzione di Dieter Schnebel, quando, rispondendo a una domanda di Hansjörg
Pauli, dichiarò: “Ciò che mi interessa in modo particolare è che la
musica pop richiede quello stesso ascolto dissociativo [un ascolto che si concentra
sulle azioni del produrre suoni]. Questa musica ha davvero raggiunto la coscienza
di amplissimi strati sociali. Ma se si ascoltano la nuova musica e la musica pop
con le stesse orecchie, si scopre – il mio ragionamento parte dal nostro versante,
cioè dalla nuova musica – che attualmente attraverso la musica pop rientrano alcuni
aspetti che sono stati introdotti dalla nuova musica; in quell’ambito ci sono
pezzi che suonano come se fossero passati per l’esperienza di Cage” (Schnebel,
1972: 364). Sebbene
l’interesse per le nuove tecnologie rappresenti – come notava Berio - un terreno
comune per i compositori che operano nel quadro delle istituzioni tradizionali
e i compositori-esecutori del progressive rock,
questi ultimi sfruttarono a tutto campo la varietà di opzioni offerta dai mezzi
elettronici. Si possono infatti individuare almeno tre campi in cui la creazione
musicale si interseca con la tecnologia: 1. Lo studio di registrazione come strumento
aggiuntivo per la messa a punto dei pezzi; 2. L’uso di strumenti elettrici e dispositivi
di trasformazione del suono durante il concerto; 3. L’impiego di luci e proiezioni
durante il concerto. Sul
primo punto si soffermano i contributi di Rizzardi e Camilleri pubblicati su questo
sito. Il secondo punto riguarda la particolare “orchestrazione” che contribuisce
a definire l’identità stilistica di ciascun gruppo e talvolta contraddistingue
determinati brani. In tale contesto l’uso creativo delle tecnologie si intreccia
con una questione tipicamente compositiva, quella dell’organizzazione dei timbri.
La preoccupazione per la buona riuscita dell’impasto timbrico, che è dimostrata
dall’accurato lavoro di tutti i gruppi presi qui in esame, non può essere spiegata
come conseguenza di una strategia di mercato. In tutti i casi l’organico devia
da quello tipico dei gruppi skiffle,
beat, blues e rock
and roll inglesi (due chitarre, una solista e l’altra ritmica,
basso elettrico e batteria) innanzitutto per la rilevanza
delle tastiere. Esse definiscono in modo specifico la sonorità del progressive
rock, rappresentando al contempo un marcatore culturale: nel mondo
occidentale il pianoforte è uno dei requisiti dell’appartamento borghese, è lo
strumento base della didattica del Conservatorio ed è il mezzo più adatto a un
unico musicista per abbozzare o “leggere” brani orchestrali. Il suo parente prossimo,
l’organo, è un altro mezzo favorito di trasmissione del sapere e della pratica
musicale, essendo presente in ogni chiesa. A questo si aggiunge il fatto che la
Gran Bretagna ebbe negli anni Sessanta scuole pianistiche di altissimo rilievo
e ciò ebbe certamente ripercussioni anche al di fuori delle accademie. Nei gruppi
che abbiamo preso in considerazione, l’organista o il pianista alterna diversi
strumenti elettrici (in alcuni casi anche il pianoforte acustico) che contribuiscono
in modo decisivo a produrre la sonorità densa e multicolore che li caratterizza.
La scelta e la combinazione degli strumenti a tastiera è un fattore determinante
per la fisionomia di ognuno di questi musicisti; a ciò si aggiunge lo stile esecutivo,
che è sempre inconfondibile in quanto sviluppatosi da un’esperienza mista, da
un itinerario personale di apprendimento. Nel
gruppo ELP, Keith Emerson suona come solista in una formazione di tre elementi,
nella quale può esibire la sua rapidità e la sua inventiva in a soli che svolgono
una funzione analoga a quelli del jazz, cioè seguono a una sezione tematica a
mo’ di variazione; a seconda del carattere dei pezzi, Emerson usa l’organo Hammond,
il sintetizzatore Moog e il pianoforte acustico. Mike Ratledge dei Soft Machine
adopera un organo Lowrey Holiday Deluxe, a cui aggiunge nel 1969 un Hohner Pianet
che a sua volta viene sostituito nel 1971 da un Fender Rhodes (lo stesso che utilizza
Ian Hammer nel gruppo di Miles Davis) con un’unità Echoplex. Talvolta Ratledge
applica un Shaftesbury Duo-fuzz al
Lowrey, al fine di creare un timbro
e un’incisività simile a quelli della chitarra elettrica, nonché altri dispositivi
di trasformazione timbrica come il wha wha.
Le caratteristiche dell’organo Lowrey condizionarono il suo stile esecutivo per
blocchi sonori collegati senza pause (Bennett, 2005: 91); gli a soli, che spesso
servono da collegamento tra due sezioni composte, si ispirano ai decorsi cromatici
di Thelonius Monk e Cecil Taylor. Kerry Minnear dei Gentle Giant opera generalmente
su tre gruppi di tastiere: un organo Hammond, un Hohner Clavinet 506 e un Moog;
il suono del Clavinet è particolarmente adatto a uno stile contrappuntistico che
necessita di chiarezza timbrica e precisione ritmica. Il tastierista dei Van der
Graaf Generator, Hugh Banton, impiega un organo Hammond e un piano Farfisa Professional;
diverse apparecchiature per la trasformazione del suono (phasing, eco, distorsioni e overdrive)
gli permettevano di creare amalgami inediti con i sassofoni, la voce di Peter
Hammill e le successioni accordali che quest’ultimo eseguiva sull’Hohner Pianet;
l’equilibro timbrico del gruppo è comunque peculiare in quanto, a partire da Pawn
Hearts è assente il basso elettrico. Sul piano storico, sebbene abbia
tratti idiomatici completamente diversi, l’espansione timbrica del pianoforte
che ha luogo nelle tastiere elettroniche dei gruppi progressive
può essere interpretata come fenomeno parallelo alla trasformazione
del pianoforte acustico che nei circoli dell’avanguardia era stata introdotta
da John Cage e che veniva coltivata dalla “nuova scuola pianistica inglese”, da
John Tilbury, John White, Dave Smith, Hugh Shrapnell, Michael Parsons e Howard
Skempton (Walker, 2001). 1
2 3
4 >
| |