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FRANCO
FABBRI “Non
al primo ascolto.” Complessità progressiva nella musica dei gruppi angloamericani,
1960-1967 La scelta di non usare il termine
“rock” nel titolo di questo mio intervento, ma di riferirmi genericamente alla
“musica dei gruppi angloamericani”, non è un vezzo e non è casuale. Il termine
“rock” da solo, slegato dalla locuzione “rock‘n’roll”, comincia ad essere usato
regolarmente proprio alla fine del periodo considerato, raggruppando e riclassificando
musiche che nella prima metà degli anni Sessanta erano state chiamate diversamente
(e con differenze non trascurabili tra Gran Bretagna e Stati Uniti, per non dire
di Italia, Francia e altri paesi). La musica dei primi Beatles era “beat” – anche
se il loro repertorio includeva classici del rock ‘n’ roll – e molti dei gruppi
della British Invasion (1965) erano abitualmente classificati come “r&b”,
mentre i loro rivali americani si trovavano soprattutto fra le “surf bands”. Il
termine “rock” permette di ricondurre questi (e altri) generi a un sovrainsieme,
che verrà presto identificato con l’espressione musicale della controcultura:
la sua adozione procede di pari passo all’emergere di sottogeneri che qualificano
la diversa appartenenza al contesto: psychedaelic rock, folk rock, country rock,
blues rock, hard rock, classic rock, art rock, progressive rock. La stessa adozione
dell’espressione “progressive rock” rispetto ad altre etichette che in una prima
fase descrivevano il genere del quale qui ci occupiamo (costruite intorno alla
radice “pop”) rende conto dell’affermarsi del modello ideologico secondo il quale
la musica giovanile (bianca!) della fine degli anni Sessanta è il rock, articolato
in sottogeneri. (1)
L’oggetto del mio interesse e di questa relazione – un oggetto minimo, e se volete
minimalista – non è tutta la musica inglese dal 1960 al 1967 (quella che oggi
spesso, con proiezione retroattiva e scarsamente filologica viene chiamata rock),
ma un processo che in quell’arco di tempo si può individuare nella produzione
di alcuni gruppi (complessi, combos) inglesi e anche (a volte in modo
determinante al fine degli sviluppi di cui dirò) nordamericani. Un processo che
ho cercato di riassumere riferendomi all’effetto che produceva, in quegli anni,
nel pubblico che di quei gruppi comprava e ascoltava i dischi: che sempre più
spesso – in modo progressivo, cioè con modalità crescente – il piacere dell’ascolto
venisse rimandato a un’occasione successiva alla prima. Una musica che non si
gustava (o non si capiva?) “al primo ascolto”, sulla base di un rapporto di complicità
tra musicisti e pubblico, tale che i primi cercavano di introdurre in ogni nuovo
brano che registravano elementi che stupissero, disorientassero, incuriosissero
il pubblico, e questo a sua volta seguisse con interesse soprattutto i musicisti
che perseguivano questa ricerca. Ciò implicava un’attenzione del pubblico alla
“musica in sé”, almeno sotto alcuni aspetti: la difficoltà esecutiva, il virtuosismo
e l’originalità del sound (intesi ovviamente in relazione al livello medio della
popular music giovanile dell’epoca). Un’attenzione estetica, accompagnata a una
tendenza a considerare quella musica e quei musicisti meritevoli di un ascolto
concentrato, solitario o per lo più in compagnia, intorno a una fonovaligia, indicandosi,
spiegandosi e discutendo le parti innovative, difficili, originali. Non voglio
dimostrare che questo processo abbia una relazione di continuità diretta con il
fenomeno che oggi genericamente si chiama progressive rock, né tantomeno che abbia
con quello un rapporto di causa ed effetto. Ma, almeno, che alcuni elementi costitutivi
delle pratiche e delle aspettative che caratterizzano il progressive rock e i
suoi diretti antecedenti erano presenti nella musica dei gruppi angloamericani
da circa un decennio e non sembrano avere collegamenti con la controcultura hippy
che alcuni considerano dominio esclusivo o privilegiato del progressive rock.
A meno che la natura di quella stessa controcultura non sia per certi aspetti
radicalmente diversa dalla sua descrizione comunemente accettata. L’attenzione
al sound, all’arrangiamento, all’uso di soluzioni melodiche, armoniche, ritmiche
originali può essere collegata, nel percorso della formazione musicale delle generazioni
di musicisti e ascoltatori che ci interessano, all’importanza della musica strumentale
nell’ultimo scorcio degli anni Cinquanta. Era abbastanza comune allora – molto
di più di quanto non lo sia stato in anni più vicini a noi – che brani strumentali
provenienti da colonne sonore di film ottenessero significativi successi di vendita.
Nel 1959 il De Guello di Dimitri Tiomkin, con l’orchestra diretta da
Nelson Riddle, fu ai primi posti nelle classifiche di numerosi paesi, Italia compresa
(ci rimase ben ventisette settimane). I collegamenti tra quel brano (dalla colonna
sonora di Rio Bravo, in italiano Un dollaro d’onore) e altre musiche sono
stupefacenti e rappresentativi delle fitte trame intertestuali che attraversano
i generi: venne evidentemente ispirato dall’Adagio del Concierto
de Aranjuezdi Joaquín Rodrigo, del quale proprio in quell’anno Miles Davis
avrebbe offerto una versione nel suo Sketches of Spain (2)
avrebbe costituito un modello per altre composizioni per film western, comprese
quelle dei primi spaghetti-western di Sergio Leone musicati da Ennio Morricone,
e offerto soluzioni di arrangiamento ottime per creare atmosfere di tragedia incombente,
come in uno dei “classici” della canzone d’autore italiana, La canzone di Marinella di Fabrizio De André. (Fabbri, 2005: 166-168) Come
vedremo tra poco (ma come ognuno sospetta) il collegamento tra atmosfere western,
musica strumentale e gruppi giovanili avrebbe portato di lì a breve a conseguenze
di una certa portata. Ma, appunto, non c’era solo la musica da film. Alcuni
successi strumentali avevano punteggiato gli anni del rock ‘n’ roll, del quale
costituivano varianti accettate: il sound latino di The Champs, con Tequila!,
e quello dei brani (non sempre solo strumentali) del chitarrista americano Duane
Eddy. Duane Eddy è una figura centrale di questo processo, sotto vari aspetti.
Veniva identificato dal suo pubblico per il caratteristico twang della
sua chitarra, un suono metallico e profondo delle corde basse, al quale contribuiva
l’uso della leva del vibrato (impiegata più che altro per prendere le note dal
di sotto, o per fare dei bendings inversi, verso il basso) e del riverbero,
ottenuto con una camera eco metallica ricavata da un serbatoio. L’amplificatore
di Eddy era costruito appositamente, con un cono (per quei tempi) gigantesco per
sostenere le basse frequenze, un altoparlante separato per gli acuti e un’imbottitura
massiccia per evitare vibrazioni indesiderate. L’attenzione maniacale ai dettagli
costruttivi delle chitarre elettriche e degli amplificatori che è alla base di
una delle scene più irresistibili di This Is Spinal Tap di Rob Reiner (là dove il chitarrista del gruppo prog-metal
mostra trionfante all’intervistatore una chitarra mai suonata, e l’amplificatore
modificato in modo che il potenziometro del volume arrivi fino a 11), è già viva
alla fine degli anni Cinquanta. Duane Eddy e il suo sound erano allora un modello
non solo per il pubblico e i musicisti americani, ma anche in Europa. Nel 1958
Eddy fece una tournée in Inghilterra come opening act per Bobby Darin, ma durante il concerto della star principale
il pubblico esigeva clamorosamente che Eddy tornasse sul palco, alzandosi in piedi
e urlando: “We want Duane, we want Duane!” (Read, 1983: 88). Alla fine Duane
Eddy fu tolto dal cartellone, e fu organizzata una tournée solo per lui. (3)
La fine
degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta sono contrassegnati negli Stati Uniti
anche da altri successi strumentali, per lo più prodotti da gruppi ai quali è
stata attribuita a posteriori (circa dal 1962 in poi) l’etichetta di surf bands.
Se questi gruppi hanno degli elementi in comune, più che l’appartenenza alla sottocultura
del surf (difficile da attribuire agli Astronauts, di Boulder, Colorado, ma certamente
pertinente ai Surfaris, che però nascono appunto nel 1962), sono il carattere
prevalentemente strumentale della loro produzione, la formazione (spesso due chitarre
elettriche, basso elettrico, batteria, con l’occasionale presenza dell’organo
Hammond), e una forte inclinazione a temi e/o nomi tecnologici o avventurosi (Ventures,
Astronauts, Orbits), che dimostra la forte presenza della tecnica nel lavoro musicale
e nella sua ideologia. Come riferisce Barney Hoskyns nel suo resoconto sulla scena
musicale di Los Angeles in quell’epoca: “Down in the coastal baby-boom
‘burbs of southern California, dozens of little instrumental combos popped out
of the woodwork, most of them with matching suits and Fender Stratocasters. ‘It
doesn’t have a nose or a mouth or eyes’, former Pixie and southern California
native Frank Black says of surf pop. ‘It’s something else, like amps and guitars.
It’s totally egoless and anonymous.’” (Hoskyns, 2003: 58) E
come ha osservato Chris Cutler, quelli erano i Kraftwerk dell’epoca, la techno
dei tempi dei jet sperimentali americani (quelli del film The Right Stuff)
e dello Sputnik. Erano la tendenza musicale “nuova” del momento. Brian May dei
Queen ha scritto:
"Instrumental music was now, for years, the thing, right up to the time when the Beatles re-introduced the primarily
vocal approach.” (Read, 1983: 241)
L’avventura nel passato e nel futuro (dal western allo spazio), la tecnica,
suoni nuovi (elettrici!), il virtuosismo individuale e di gruppo erano temi emergenti
nel lavoro di gruppi diversi come Johnny And The Hurricanes (col successo nel
1959 della loro Red River Rock, adattamento di Red River Valley,
una romanza da salotto di James Kerrigan del 1896, portata al successo nel 1936
dal singing cowboy Gene Autry), e i Ventures (col successo nel 1960 di Walk, Don’t Run, un pezzo del chitarrista jazz Johnny Smith, ripreso dal
chitarrista country e jazz Chet Atkins, arrangiato dai Ventures per mettere in
evidenza le abilità dei quattro strumentisti: due chitarre, basso, batteria).
I Ventures sarebbero rimasti a lungo uno dei più noti gruppi strumentali statunitensi
e del mondo, per un certo periodo all’avanguardia nello sviluppo di soluzioni
tecnologiche: furono i primi (è un ricordo di letture dell’epoca, non saprei come
verificare oggi) a utilizzare chitarre elettriche senza fili, collegate agli amplificatori
per mezzo di radiotrasmettitori. La competizione per il primato tecnologico
(che era in quegli anni all’ordine del giorno nella sfida spaziale tra Stati Uniti
e Unione Sovietica) vide come controparte dei Ventures al di qua dell’Atlantico
gli Shadows. La stessa formazione, la stessa predilezione per atmosfere avventurose,
la stessa inclinazione al virtuosismo individuale e di gruppo, legata all’obiettivo
di un suono impeccabile, lo stesso feticismo per gli strumenti, immortalato nelle
silhouettes delle chitarre Fender (e assimilato dai fan, per molti dei quali una
delle forme di dedizione più abituali era disegnare dappertutto il profilo di
una Stratocaster: nell’era dello skiffle, una chitarra Hofner o un basso Framus
erano già strumenti lussuosi, la Fender un mito inarrivabile). Un esempio che
riunisce molti di questi aspetti (da confrontare con Walk, Don’t Run
dei Ventures) è Kon Tiki, il secondo singolo degli Shadows a raggiungere
il primo posto della classifica, nel 1961. Il brano non è scritto dai componenti
del gruppo (ne è autore Michael Carr, un navigato autore di musica da film), il
titolo richiama un’impresa avventurosa del 1947 (il viaggio dell’esploratore danese
Thor Heyerdahl, 1914-2002, su una zattera, dal Perù alla Polinesia), gli strumenti
si alternano in primo piano, con una preminenza del registro acuto. Hank Marvin,
il solista degli Shadows, temeva il confronto con i bassi inimitabili di Duane
Eddy, che non riusciva a riprodurre: creò un suono originale lavorando sugli acuti,
con il riverbero, con l’eco ribattuto. È da rilevare durante l’ascolto la presenza
della chitarra acustica in funzione di chitarra ritmica: i suoi interventi sono
bilanciati con quelli degli strumenti amplificati e della batteria grazie al missaggio,
che altera (ma facendolo apparire “naturale”) l’equilibrio tra voci strumentali
di diverso livello. 1
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