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Contributo di Nicoletta Gossen (Schola Cantorum Basiliensis)

 

Nel nome del «medioevo». Qualche esempio d’interpretazione moderna delle fonti di musica medievale*

 

 

 

«Il 25 settembre 1264, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevan Calvados.

Il Duca d’Auge sospirò pur senza interrompere l’attento esame di quei fenomeni consunti.

Gli Unni cucinavano bistecche alla tartara, i Gaulois fumavano gitanes, i Saracineschi chiudevano persiane. I Normanni bevevan Calvados.

«Tutta questa storia» disse il Duca di Auge al Duca di Auge «tutta questa storia per qualche giuoco di parole, per un po’ di anacronismi: una miseria! Non si troverà mai un via d’uscita?».

Con queste parole si apre il romanzo Les fleurs bleues [I fiori blu] di Raymond Queneau. «Quante storie per un paio di anacronismi» verrebbe talora da sospirare allo storico della musica, al filologo e a chi si confronta quotidianamente con la prassi esecutiva della musica medievale. È inevitabile produrre anacronismi quando si suona o si canta quel repertorio, ma possiamo almeno chiederci per quale tipologia di anacronismo vogliamo deciderci e perché.

I musicisti che si interessano al repertorio medievale hanno ormai gli strumenti necessari per studiarlo e conoscerlo a fondo. Tuttavia, il tipo di esecuzione non dipenderà solo da quanto essa sia informata storicamente ma anche dai gusti estetici personali, spesso piegati all’organico a disposizione al momento e al pubblico, quindi al mercato.

Sia gli interpreti, sia il pubblico hanno un’immagine preconcetta dell’epoca che noi, in mancanza di un termine più preciso, chiamiamo «medioevo». Dall’umanesimo in avanti, attraverso l’illuminismo, il romanticismo francese o tedesco e i movimenti di revival del medioevo che si sono avvicendati fino ai giorni nostri, molto è stato detto e scritto sul medioevo. E tutto questo ha lasciato le sue tracce sul fruitore odierno, che eredita i cliché di un medioevo primitivo, mistico, crudele, ingenuo e ‘oscuro’, come viene più sovente aggettivato. Più di una volta mi è stato chiesto, ad esempio: «Ma nel medioevo, esisteva già la musica?». E se nel 2003 su un giornale svizzero un lettore dichiarò che era ora di finirla con questa «tecnologia medievale dell’energia nucleare», va da sé che il termine «medioevo», per estensione, venga ormai associato a tutto ciò che suona inadeguato ai tempi, vetusto, persino ridicolo.

I fruitori della musica medievale, cioè interpreti, pubblico e l’industria discografica possiedono una propria immagine del medioevo, proprie aspettative su ciò che immaginano essere la musica medievale e questa eterogeneità di immagine si riflette sulla pratica musicale attuale. Lo stesso brano può presentarsi in un modo completamente diverso a seconda delle scelte del gruppo che lo esegue. Paradigmatico è il caso della ballata monodica Lucente stella che’l mio cor desfay, tramandataci da un’unica fonte, sul folio 22 del cosiddetto Codice Rossi (Biblioteca Vaticana, Rossi 215), risalente al 1370 circa, che contiene musica italiana anonima profana, monodica e polifonica.

Il testo di Lucente stella si inserisce stilisticamente nella tradizione del Dolce Stil Novo. Nel secondo piede della ballata «gli atti tuoi prometton salute a chi si specchia nel tuo bel viso», la donna idealizzata porta salute e quindi conoscenza a chi si riconosce nel suo viso. L’amore come via della salute. Questa è l’idea fondamentale dell’amor cortese. In questo senso Lucente stella, nonostante le inflessioni veneziane rivelate dal testo, non è poesia popolare. È importante ricordare che il canto monodico nel corso del medioevo è prima di tutto una recitazione poetica e questo implica che l’interpretazione musicale si orienti sul testo. Un’interpretazione che si basa sul manoscritto, che non è nient’altro che una linea melodica su un testo poetico, si preoccuperà di declamare il testo nella maniera più intelligibile e rispettosa possibile.

Altre interpretazioni non si accontentano di questo, ma cercano di arricchire la ballata aggiungendo voci strumentali o allungando la durata del brano con pre-, inter- o postludi strumentali, come ad esempio nella registrazione del gruppo Micrologus del 1988.

Su un accompagnamento di percussioni, cerca di emergere una voce forte e un po’ monotona. Durante tutto il brano, il tamburo riproduce una pulsazione regolare. Le finezze dell’originale mensurale vengono letteralmente ‘abbattute’ dall’uniformità del nuovo ritmo.

La sonorità di questa incisione evoca quella di certa musica popolare. L’associazione musica medioevale-musica popolare è molto diffusa, poiché si tenta di trovare nella seconda ciò che si ignora nella prima, ossia come suonava. Specie nell’ambito dell’interpretazione della musica italiana del Trecento è diffuso un simile orientamento. Nella musicologia questo fenomeno ha una lunga tradizione. Durante il suo discorso di rettorato a Göttingen nel 1930, Friedrich Ludwig osservò: «Accanto alla gracile e raffinata arte polifonica dei madrigalisti italiani, un’impetuosa corrente di canto popolaresco religioso rumoreggia nell’Italia del Trecento». È di quella «corrente di canto» che si nutrono le interpretazioni quando non si tratta di gracile polifonia ma appunto di musica monodica del Trecento. Ludwig a sua volta si appoggiava ad una certa tradizione. Già Raphael Georg Kiesewetter nel 1838 alludeva alle «melodie popolareggianti» dei trovieri francesi del Duecento e chiamò i canti dei trovatori «veri canti popolari». Se oggi la musica medievale è interpretata in chiave popolareggiante, però, non lo si deve né a Ludwig né a Kiesewetter, ma alle comparazioni fra melodie popolaresche moderne di varie regioni e un certo repertorio medievale. È facile immaginarsi quanto questo possa risultare problematico.

Nel 1991 il gruppo Alla Francesca incise la ballata Lucente stella in una versione puramente strumentale che restituisce il testo monodico in forma ornamentata. Un flauto dolce di bambù è chiamato ad ornare la monodia originale. È indubbio che la scelta dello strumento solista dipenda dalle idee dell’interprete sul medioevo. Forse involontariamente l’effetto prodotto è quello di certe musiche di meditazione in voga negli anni Ottanta (New Age). Un’interpretazione simile rafforza nell’uditore l’idea di un medioevo mistico e meditativo. L’esecuzione lascia anche pensare alla musica giapponese o indiana, creando ancora un ponte fra musica medievale e la cosiddetta world music. Questa incisione mette in rilievo due aspetti dell’immagine moderna del medioevo: l’aspetto mistico-meditativo e l’aspetto esotico, tralasciando completamente l’elemento fondamentale: il testo.

Nel 1995, il gruppo Micrologus riprese Lucente stella facendo precedere la melodia originale da un brano strumentale, inventando un contrappunto ritmicamente monotono e un postludio assai lungo alla fine. Invece della recitazione monodica di una poesia, si ascolta una composizione polifonica contemporaneo-medievale, neo-medievale. Il ritmo mensurale dell’originale viene semplificato in un modello ritmico ripetitivo dell’accompagnamento strumentale. La tipica forma della ballata in cinque parti – ripresa, due piedi, volta e seconda ripresa – diventa un modello tripartito: introduzione, parte principale, postludio, una sorta di forma classica, più familiare agli uditori. Invece di proporre una delle immagini stereotipate del medioevo, l’esecuzione adatta il brano al gusto moderno, offrendo all’uditore un modello di riferimento a lui più vicino, quello classico.

Le tre interpretazioni che abbiamo sentito mostrano tre idee differenti dello stesso brano originale. La libertà nella scelta si spiega con le lacune sulla pratica musicale del Trecento. Certuni hanno però la tendenza ad esagerare queste lacune per giustificare le proprie scelte stilistiche. Vorrei citare ad esempio alcune frasi di un’intervista rilasciata da una suonatrice di viella: «Suonare una canzone esoterica di un trovatore, non partendo da musica scritta, ma solo da una poesia criptica, difficile da capire, pone numerose difficoltà perché si è costretti a prendere delle decisioni e comporre una parte». In questa dichiarazione l’arte trobadorica viene etichettata come «esoterica», e si suggerisce erroneamente l’idea che di questo repertorio non esista alcuna traccia scritta. In realtà, sono trasmesse quasi 300 melodie. In confronto a una produzione totale di circa 2500 poesie trobadoriche non è molto, certo, ma sempre meglio di niente. Più avanti si afferma che la poesia sia difficile da capire, il che è vero se non la si affronta seriamente. A partire da questi presupposti si è legittimati a comporre qualcosa di completamente nuovo! L’ignoranza viene esagerata al di là del vero, al fine di acquistare totale libertà sull’interpretazione. È la stessa strumentista a dichiarare più avanti che: «suonare musica medievale è come cucinare senza ricetta».

Ciascuna delle interpretazioni esprime delle idee personali sul medioevo o tenta di familiarizzare il pubblico con un repertorio assai remoto. È comprensibile che gli ensemble cerchino repertori meno noti ma accattivanti per il pubblico – in questo caso la musica medievale. Al contempo è evidente la preoccupazione di tenere conto delle abitudini d’ascolto odierne e di riproporre al pubblico ciò che risponde alle sue aspettative di ‘sound’ medievale, quel ‘sound’ a cui è stato educato negli ultimi cinquant’anni di prassi esecutiva di quella musica. L’ascoltatore si attende un organico variegato e un po’ esotico o un bordone permanente che fa da sottofondo all’intero brano. Questo sì che è medievale! È chiaro che non è il pubblico ad aver stabilito questi criteri stilistici, ma sono i vari ensemble. Cito dal sito internet di un gruppo di musica medievale: «Il medioevo, l’epoca in cui si sprofondava nel fango, che odorava di lana bagnata e in cui mancava la carta igienica. Ma c’era di più della miseria e della peste bubbonica. Quell’epoca era piena di musica, di suoni e strumenti che oggi sono quasi dimenticati. Il nostro obiettivo è di presentare la musica del medioevo nella maniera più autentica possibile, mantenendo sempre l’aspetto più importante – vale a dire lo "Swing"!». Così si creano le aspettative: la musica medievale si basa sullo «swing»: viene ritmizzata in modo da interessare un certo pubblico. Immagino che le interpretazioni di questo gruppo facciano onore a queste premesse…

Il programma di un CD con musica medievale viene confezionato come una scatola di cioccolatini, assortito con un po’ di tutto ma non troppo. Se un brano è troppo corto, si canta due o tre volte di seguito. Ma chi ne ha determinato la durata? L’industria musicale coi titoli «tre minuti» per la radio. D’altra parte, se possiede molte strofe (il più lungo di cui ho conoscenza è di Guillaume de Machaut, con 36 strofe), allora non si canterà tutto ma si comincerà a tagliare per arrivare alla durata ‘ideale’, procedimento però che non si adatta in tutti i casi. Tutte queste modificazioni sono concessioni al pubblico, al mercato. Mettendo al centro dell’interesse la musica stessa e non le aspettative del pubblico, non è necessario scegliere strumenti esotici o aggiungere linee, introduzioni o postludi neo-medievali. Non si deve rimediare a una presunta deficienza di questa musica che nasce dal presupposto che il testo tràdito non contenga che una piccola parte delle informazioni occorrenti per una soddisfacente esecuzione.

Lontana da me l’idea di postulare un purismo sterile e di pretendere che solo l’interpretazione monodica senza accompagnamento sia lecita. Questa forma di esecuzione ha però due grossi vantaggi: si ascolta quello che è trasmesso nel manoscritto, percependone l’origine poetica. I rifacimenti nello stile del secondo esempio, con Micrologus, suggeriscono all’uditore un originale fittizio (questa versione è due volte più lunga delle altre), che può esser copiato da un altro gruppo come vero originale, come è successo con questo brano. L’uditore crede dunque di ascoltare un originale medievale, quando in realtà si tratta di una composizione nuova che da numerosi punti di vista non può ritenersi soddisfacente. Mi spiego. Non sono composizioni veramente contemporanee, ma nient’altro che timidi compromessi in stile medievale, paragonabili a un capanno di caccia neogotica. Questo è il risultato di una certa paura dell’anacronismo, in cui si tenta di diminuire la distanza temporale fra quella musica e l’uditore odierno. Ma queste nuove composizioni in molti casi non raggiungono la qualità dell’originale, creando uno squilibrio all’interno delle singole parti dell’esecuzione, e tra un pezzo e l’altro. Una composizione moderna è sempre concepita per una determinato organico. Nella musica medievale mancano informazioni inequivocabili a questo riguardo. Il risultato è sovente un certo eclettismo, una globalizzazione infelice e arbitraria nella scelta dei mezzi – al fine di piacere al pubblico e di vivacizzare un programma altrimenti ‘noioso’ – che né esteticamente né storicamente riesce a convincere.

Per l’interprete di musica medievale non si tratta di ritirarsi dal mercato, di rinchiudersi in una torre eburnea e mangiare pappa di miglio invece del BigMac, ma di non proporre al pubblico un repertorio precotto e pronto al consumo. Ci vuole coraggio per infrangere le consuetudini della storia della prassi esecutiva, che spesso ha celebrato oppure banalizzato la musica medievale invece di comprenderla come fenomeno musicale al pari di altri e presentarla di conseguenza.

Credo sia giunto il momento di liberarsi di certi retaggi degli ultimi decenni e di ripensare a tutte le concessioni fatte al pubblico. Solo allora sapremo se l’astrazione della fonte grafica potrà essere vivificata per mezzo dell’esecuzione sonora, senza tentare di adattare il brano al pubblico, ma al contrario, cercando quasi di adattare il pubblico alla musica, avvicinandoci a questa con i mezzi oggi disponibili, accettando l’inevitabile anacronismo e sottoponendo le vecchie abitudini ad uno sguardo critico, poiché questi «fenomeni logori» – come dice Queneau – impediscono di veder chiaro l’oggetto.

Le prime riproposizioni della musica medievale all’inizio del Ventesimo secolo furono degli arrangiamenti estremi, come ad esempio la strumentazione di un organum del XIII secolo per grande orchestra e coro. Si riteneva che la musica medievale, seppur storicamente interessante, fosse composta in maniera ‘primitiva’. Oggi si dice di avere una maggiore stima di questa musica (basti leggere il programma di un CD), ma molte interpretazioni mostrano una grande sfiducia negli originali. Questo dubbio non viene espresso, ma è implicito nell’esecuzione. Siamo meno sinceri dei pionieri della musica medievale del primo Novecento e meno coerenti degli storici dell’Ottocento come un Viollet-le-Duc, che dopo aver studiato l’architettura gotica a fondo, lavorò con la ghisa per rimediare alle presunte debolezze delle costruzioni originali. Gli interpreti moderni rinforzano i loro brani con preludi, interludi o postludi e non con la ghisa, ma non dicono di farlo perché non si fidano dell’originale. Al contrario: diranno che si tratta di musica molto preziosa e la presenteranno come se questi brani fossero difettosi ed essi fossero stati costretti a intervenire a loro modo.

Il pericolo è che la prassi esecutiva della musica medievale finisca in una via senza uscita, perché verrà il giorno in cui l’interesse per un flauto di bambù sarà svanito e il bordone avrà perso il suo profumo medievale. D’altra parte, delle composizioni dei maestri del medioevo non abbiamo scoperto le infinite ricchezze che ancora celano, ma abbiamo grattato solo in superficie. Tutte queste opere stupende, prodotto di un’arte altamente raffinata, sono da ripensare, da riscoprire, anche da parte di noi musicologi! Le condizioni di lavoro non sono mai state così favorevoli, considerato che possiamo disporre di ottime edizioni critiche, di stupendi facsimili, di eccellenti studi musicologici e iconografici e via dicendo. Non è più necessario fingere che non si sappia abbastanza e che si sia costretti a copiare quello che si è fatto durante i cinquant’ anni passati. Queste interpretazioni, già diventate storiche, hanno una loro legittimità e sono da rispettare e intendere come prodotti del loro tempo, ma non possono costituire un modello interpretativo, oggi.

Non nego che ci siano ancora molti aspetti della pratica che rimangono oscuri, ma questo non ci legittima a sfigurare la musica del Medioevo con delle aggiunte doppiamente anacronistiche e musicalmente mediocri. Il musicista ben informato ha il dovere di cercare e proporre una forma della rappresentazione artisticamente autentica (non parlo chiaramente di autenticità assoluta, poiché la ricostruzione precisa di un originale non sarà mai possibile), cioè un’interpretazione che sarebbe soddisfacente anche se non si trattasse di musica di un’epoca così remota come il medioevo. Intenzionalmente critico qui la mediocrità di coloro che diffondono questo repertorio, che al contrario esigerebbe ottimi interpreti, considerato l’alto grado di astrazione. Questa musica è quasi come la poesia (trattandosi perlopiù di un repertorio vocale) e pretende l’interpretazione di un poeta che si limita all’essenziale e non fa impiego di versi superflui.

Per amore del vero, devo anche dire che ci sono giovani interpreti che lavorano già in questa direzione e lasciano ben sperare che il mercato non sia il criterio assoluto per le loro scelte interpretative: non incoraggiano, ad esempio, la diffusione di vecchi cliché, come l’associazione musica medievale = musica popolare, impiegando quindi strumenti esotici o un bordone perpetuo. Il lavoro di questi ensemble preconizza la bella «strada lattea del cielo», per citare un celebre madrigale di Johannes Ciconia, che condurrà finalmente alla comprensione profonda di questa poesia musicale così affascinante.

Questa speranza trova un’immagine adeguata nei «fiori blu» che alla fine del romanzo di Queneau spuntano qua e là dal fango della storia:

«Une couche de vase couvrait encore la terre, mais, ici et là,

s’épanouissaient déjà de petites fleurs bleues».

 

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[Bio] Nicoletta Gossen, musicologa e filologa, è membro del dipartimento di ricerca della Schola Cantorum Basiliensis, dove insegna Storia della musica medievale. È imminente l'uscita del suo libro Musik in Texten - Texte in Musik. Der poetische Text als Herausforderung an die Interpreten der Musik des Mittelalters.

* La versione originale tedesca di questo intervento è stata pubblicata nello «Jahrbuch für Historische Musikpraxis» (XXVII, 2003, pp. 79-91). Ringrazio Claudia Vincis dell’Istituto di Musicologia dell’Università di Basilea per la traduzione in italiano.

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( 2009-11-24 )

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