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Contributo di Tiziana Sucato

 

L’articolazione del pensiero musicale nelle composizioni del primo Trecento italiano*

 

 

Il mottetto Ave regina celorum / Mater innocencie / tenor di Marchetto è stato oggetto negli ultimi anni di numerosi scandagli volti a stabilire la sua collocazione nel contesto della produzione internazionale per quanto riguarda la sua struttura compositiva, e per proporne una datazione in linea o differente rispetto a quella a suo tempo avanzata da F. Alberto Gallo. Lo studioso ipotizzò il legame tra il mottetto e l’ufficio drammatico dell’Annunciazione e indicò nella cerimonia di inaugurazione della cappella degli Scrovegni, avvenuta nel 1305, l’occasione. La lettura approfondita dei capitoli del Pomerium dedicati al tempo musicale, nei quali l’unità ritenuta più adatta a definire la specificità del tempo in musica sembra avere una natura più qualitativa che quantitativa, mi ha portato a dedurre che in una composizione fosse considerata importante la percezione chiara della temporalità che in essa veniva svolgendosi. Assunta questa prospettiva mi è parso opportuno monitorare l’ambiente musicale padovano trecentesco nel quale si formò Marchetto, per capire se la priorità che ho supposto nella teorizzazione di Marchetto prendesse la mosse dal repertorio del quale aveva esperienza in qualità di magister cantus. In altre parole, stabilito che l’unità di misura in musica si caratterizza per il fatto di essere la minima unità di senso musicale, ho voluto verificare quanto questa concezione del tempo registrasse un modo di intendere la composizione proprio di un ambiente e quanto si potesse rintracciare nella produzione successiva al trattato. Per prima cosa ho cercato di rilevare come questa direzionalità - che ho chiamato «il prima» e «il poi» - fosse attuata nella polifonia semplice. Ho riscontrato il prevalere degli «aspetti dinamici» - uso delle consonanze imperfette, e delle sonorità imperfette alterate in cadenza, forte direzionalità della melodia alla quale contribuisce in modo determinante la chiara delimitazione dell’ambito della voce superiore ad una quinta o ad una quarta, corrispondenza biunivoca tra figurazioni ritmiche e ruolo delle altezze.

L’analisi dei mottetti di area veneta Ave Regina celorum / Mater innocencie / tenor, Cetus inseraphici / Cetus apostolicis / tenor e Ave corpus sanctum / Adolescens protomartir / tenor ha posto in rilievo le peculiarità condivise da queste tre composizioni: il modo di plasmare la temporalità secondo meccanismi che si affidano quasi totalmente alla pregnanza della linea melodica del triplum, per la gerarchia tra le altezze in essa riconoscibile e adeguatamente rinforzata dalla condotta ritmica; il ruolo predominante delle sonorità imperfette che sono collocate spesso in posizione esposta (ad inizio di unità di brevis, e/o con valori lunghi); la condotta delle due voci superiori, duplum e triplum, che formano un duetto nel quale le componenti ritmiche sono quasi sempre in ‘concordanza di fase’, e le figurazioni poche e reiterate; i rari incroci tra le voci. Alla luce dei risultati dell’analisi la datazione più probabile per il mottetto Ave Regina celorum / Mater innocencie / tenor sembra essere il secondo decennio del Trecento.

Gli aspetti sopra elencati contribuiscono a disegnare la composizione come un processo. ‘Processo’ e ‘struttura’ identificano modi diversi di intendere il comporre. Nel primo caso, sebbene sia riconoscibile una precisa formalizzazione coerente al genere di appartenenza (mottetto o madrigale), i materiali e le connessioni tra idee successive sono enfatizzati attraverso la continua sollecitazione verso quanto segue, con una sistematica elusione della sonorità perfetta ad inizio di brevis e di longa. Parlando di struttura invece ho inteso sottolineare come, per esempio nel mottetto Quoniam secta latronum / Tribum que non abhorruit / Merito hec patimur di Vitry, prevalga l’idea di coesione formale governata da simmetrie quasi sempre afferrabili solo grazie all’analisi e dove è ridotta l’importanza dell’ascolto a beneficio del pensiero che coglie le relazioni. Questa polarità è naturalmente una estremizzazione; utile, però, per cogliere il diverso approccio della tradizione italiana e di quella francese nei confronti della temporalità.

Ho considerato tra gli strumenti concettuali atti ad affrontare il problema posto, l’analogia, così frequente nella trattatistica medievale, tra discorso musicale e discorso verbale i quali si rispecchiano uno nell’altro soprattutto per il fatto di svolgersi nel tempo e di dovere scegliere i propri materiali e i propri percorsi in ragione dell’esistenza di un ‘ascoltatore’.[1]

Proprio questo sbilanciamento verso l’uditorio, sotteso alla definizione di tempo musicale presente nel Pomerium, connota ulteriormente il procedere della composizione come processo, e proprio in questo è riscontrabile l’analogia con la retorica. Nei mottetti come nei madrigali è infatti possibile individuare a livello di macro-struttura un esordio, una argomentazione ed una conclusione.

L’analogia con la retorica deve essere considerata entro l’atteggiamento conoscitivo che in ambito di storiografia filosofica è stato definito «paradigma rappresentativo» e che spiega il modo in cui ciò che è fuori di noi esiste in noi secondo un modello visivo. Esso è, proprio come l’approccio qualitativo all’unità di misura in musica, retaggio della tradizione, e in contrasto con il cosiddetto «paradigma logico» che con Ockham prenderà il sopravvento. È questo atteggiamento che fa scrivere a Giovanni di Garlandia che il color musicale è come un ‘oggetto per l’udito’ e che la composizione è tanto più piacevole quanto più le sue parti risultano distinte, e i loro contorni sono definiti da chiare componenti ritmico-melodiche e contrappuntistiche.

Tutti gli elementi dunque convergono e si rinforzano a vicenda: l’unità di misura intesa in senso qualitativo è l’elemento che presiede alla composizione, che può essere letta secondo l’analogia con il discorso in quanto il soggetto che ascolta è continuamente presupposto nella strutturazione della minima unità di senso musicale. Essa infatti, deve essere avvertita come ciclica, senza essere connotata univocamente, perché costituita, come detto, dall’inestricabile intreccio di componenti ritmiche, melodiche e contrappuntistiche. Le idee musicali nonché l’ordine della loro successione sono composti in modo da essere immaginativamente rappresentabili da chi ascolta.

Ho sviluppato le implicazioni dell’atteggiamento conoscitivo che si rifà al paradigma rappresentativo rispetto all’evento sonoro, e non in relazione alle figure musicali. Il Pomerium, infatti prosegue la tradizione di Franco e dei teorici che lo precedettero e afferma che la figura geometrica è la rappresentazione del suono. Marchetto coerentemente con la tradizione, considera il grafo coessenziale al concetto. Il segno non è per lui né convenzionale, né arbitrario come invece affermato da De Muris. È proprio entro questo atteggiamento che deve essere collocata la figura delle ligaturae di pari-grado così caratteristiche della notazione italiana, che hanno la loro ragione d’essere nella convinzione che entro il contorno di una figura sia racchiusa la sostanza del suono che attraverso di essa si rende dicibile. Sarebbe opportuno indagare se la riproposizione, nel primo Quattrocento, di questa figura notazionale in concomitanza con scelte compositive e di lingua dei testi poetici, sia da porre in relazione con le sempre più aspre polemiche tra ‘loici’ e umanisti che animavano le corti di Pavia e Firenze soprattutto. Carla Vivarelli ha ampiamente dimostrato come questo rapporto con la figura sia una delle spie che consentono di affermare come l’ars subtilior, seppure sia da considerare una moda francese «coinvolgendo in maniera sostanziale musici-cantori italiani, ha finito per assorbirne i caratteri peculiari […] La peculiarità italiana penetrata nella prassi e nella teoria subtilior è prima di tutto ravvisabile nella ricerca dell’immediata intellegibilità (ed intuitività) del segno […] riducendo i tempi di riflessione e lo spazio dell’interpretazione».[2]

Ho registrato la condotta delle melodie e la maniera nella quale vengono sostenute dal contrappunto e confrontato le situazioni analoghe, riscontrando una certa ripetitività di percorsi e di soluzioni. Non ho ritenuto opportuno avanzare alcuna ipotesi generale circa il sistema sotteso alla gerarchia delle altezze in quanto fino ad ora non è stato elaborato un quadro generale per quanto riguarda il repertorio italiano.[3] Nelle composizioni che ho analizzato ho visto confermate molte delle conclusioni alle quali è giunto Daniele Sabaino a proposito della ballata Contemplar le gran cose di Landini,[4] e cioè che l’idea melodica si sviluppa prevalentemente per frasi discendenti, e che quando il suono conclusivo è D (d) la composizione si muove principalmente sulla dialettica g/a, e tra i suoni della melodia è possibile individuarne alcuni che svolgono il ruolo di rinforzo al suono principale.

Nell’ultimo capitolo ho preso in considerazione i madrigali di Piero e ho cercato di mostrare come le forti diversità fra Quando l’aire comença a farse bruno e Sì com’ al canto della bella Yguana possano essere collegate al differente carattere dei testi musicati. Piero adotta due sintassi contrappuntistiche fortemente connotate e che si distinguono dal resto della sua produzione. Mi sembra si possa dire che si avverte il desiderio di porgere il testo in modo che esso sia il più possibile compreso nella sua struttura ritmica di verso e qualche volta nella sua componente di senso. Ho sostenuto che l’interpretazione mimetica di qualche parola del testo rimane una delle possibilità che il compositore può prendere in considerazione, ma i modi sono stabiliti di volta in volta, ed emergono all’interno del linguaggio di ciascun compositore - nonché di ciascun madrigale - così come è verificabile da quanto tramandato. Anche nelle tre composizioni di Giovanni che porto ad esempio sono evidenziati tre modi differenti di porgere il testo e di interpretarlo attraverso le scelte di contrappunto e ritmiche. In Giovanni si avverte più studiata, rispetto a Piero, la composizione del periodo musicale, soprattutto per quanto riguarda la fisionomia dei melismi che non sono libero fluire di suoni a riempire un discanto tutto sommato prevedibile, ma sono strutturati con materiale melodico e ritmico già precedentemente esposto.

L’espressività nella musica medievale è veicolata in vari modi che possono comprendere la puntuale interpretazione di parole, in genere quelle che descrivono un movimento, attraverso figure ritmiche e melodiche che ad esse rimandino in modo mimetico, oppure la ‘messa in scena’ del senso di alcune strutture verbali come ad esempio la proposizione consecutiva, attraverso la saldatura delle due frasi musicali ad essa connesse, oppure del senso di alcune situazioni, ad esempio l’apparire della donna amata o di Amore attraverso improvvise stasi del tessuto ritmico in corrispondenza delle locuzioni che le descrivono, o ancora macro-corrispondenze laddove sembra possibile rintracciare una analogia fra il tema del madrigale e la strutturazione del piano delle cadenze, come ho supposto in Sì come al canto.

Alla musica certamente i compositori affidano qualcosa di più che il compito di vestire in modo ritmicamente compatibile il verso. L’emozione che procura l’ascolto delle nuove composizioni, e che nei trattati e nella letteratura è descritta attraverso le immagini e gli esempi che la tradizione ha consegnato agli uomini medievali, è il frutto di un sapiente connubio tra parole e musica basato non solo sul «numero».

 

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[Bio] Tiziana Sucato, dottore di ricerca in Musicologia e Scienze Filologiche, Università di Pavia, si occupa della notazione italiana del Trecento, delle sperimentazioni condotte al suo interno e delle loro ricadute sulla tradizione testuale. Ha pubblicato l'edizione critica del Codice Rossiano 215 (Pisa, Edizioni ETS, 2003).

[*] Estratto dalle Conclusioni di T. SUCATO, L’articolazione del pensiero musicale nelle composizioni del primo Trecento italiano, tesi di dottorato in Musicologia e Scienze Filologiche, Università degli Studi di Pavia, 2006.

[1] «Early Music» 2003 raccoglie molti contributi dedicati proprio alle strategie messe in atto per comunicare con chi ascolta. Gli esempi sono tratti dalla musica francese (I: DANIEL LEECH-WILKINSON, Articulating Ars Subtilior Song, pp. 7- 18; YOLANDA PLUMLEY, Playing the Citation Game in the Late 14th-century Chanson, pp. 21-39; II: ANNE STONE, Self-reflexive Songs and Their Readers in the Late 14th-century, pp. 181-194; DONALD GREIG, Ars Subtilior Repertory as Performance Palimpsest, pp. 197-209; III: ARDIS BUTTERFIELD, The Art of Repetition. Machaut’s Ballade 33, "Ne qu’on porroit", pp. 347-360). Evans, studiando i mottetti dell’ars antiqua, nota che parole e musica sono composte in modo da creare una sorta di messa in scena del testo, cfr. BEVERLY JEAN EVANS, The Unity of Text and Music in the Late Thirteenth-century French Motet. A Study of Selected Works from Montpellier Manuscripts, Fascicle VII Ph.D. diss., University of Pennsylvania, 1983.

[2] CARLA VIVARELLI, L’evoluzione del pensiero musicale fra Trecento e Quattrocento. Uno studio comparato di teoria e prassi "subtilior", tesi di dottorato, Università degli Studi di Pavia, 2005, p. 392.

[3] Le ipotesi proposte per l’ambito francese da Lefferts (PETER M. LEFFERTS, Signature-systems and Tonal Types in the Fourteenth-century French Chanson, «Plainsong and Medieval Music», IV, 1995, pp. 117-147) e applicate da Yolanda Plumley alla produzione di Machaut (The Grammar of 14th Century Melody: Tonal Organization and Compositional Process in the Chansons of Guillame de Machaut and the Ars Subtilior, New York and London, Garland, 1996) non risultano del tutto convincenti: Jennifer Bain (Tonal Structure and the Melodic Role of Chromatic Inflections in the Music of Machaut, «Plainsong and Medieval Music», XIV, 2005, pp. 59-88) e Marco Mangani (Le "strutture tonali" della polifonia, «Rivista di Analisi e Teoria Musicale», X/1, 2004, pp. 19-37) esprimono le loro forti perplessità circa il fondamento stesso del sistema dei tonal type applicati a questo repertorio, che presenta forti oscillazioni nella presenza dei segni di alterazioni nei diversi testimoni.

[4] DANIELE SABAINO, Per un’analisi delle strutture compositive nella musica di Francesco Landini: il caso della ballata "Contemplar le gran cose" (31), in "Col dolce suon che da te piove". Studi su Francesco Landini e la musica del suo tempo, a cura di Maria Teresa Rosa Barezzani e Antonio Delfino, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 1999, pp. 259-322.

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( 2009-11-24 )

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