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Contributo di Recensione a cura di Marco Emanuele

 

 

EMANUELE SENICI, Landscape and Gender in Italian Opera. The Alpine Virgin from Bellini to Puccini, Cambridge University Press, Cambridge, 2005, 356 pp., 15 illustrazioni, 26 esempi musicali.

 

 

Un libro così forse non potrebbe essere scritto in Italia. Anche se italiano è l’autore, che vi ha lavorato da circa un decennio, sviluppando ricerche iniziate negli anni di studio americani, i numerosi riferimenti a prospettive cui la cultura italiana, anche musicologica, sembra ancora impermeabile, ne smascherano l’impronta errante, multiculturale. Il tema che unifica è il rapporto tra identità sessuale e paesaggio nel melodramma dell’Ottocento e del primo Novecento: in particolare, la relazione tra il personaggio femminile dell’eroina innocente e pura, e il paesaggio delle Alpi. Come risuona quest’ultimo, in musica? Come entra in relazione con i personaggi? E come sono costruiti i personaggi, nella loro identità sessuale? Sono alcune domande sottese all’indagine. Nella rassegna di vergini alpestri, gli esempi affrontati sono: Sonnambula, in partenza, poi Linda di Chamounix, Luisa Miller, Promessi sposi, Wally, il terzo atto di Fedora (una ‘finta’ vergine, per la quale l’alleanza col paesaggio svizzero è fallimentare) e Fanciulla del West, esempio di un nuovo modello femminile, la vergine americana inserita in un inedito paesaggio esotico che rimpiazza quello alpino, contaminato dal turismo incipiente. Le parti di raccordo si incastrano all’interno di sei capitoli e fan capo da un lato agli studi ‘sul paesaggio’, in particolare sul paesaggio alpino nella cultura europea, dall’altro agli studi sulla costruzione culturale dell’identità femminile, in particolare sul ruolo della verginità nell’immaginario d’epoca. I risultati di tali studi sono sintetizzati con occhio attento alle tracce desunte dalla letteratura contemporanea agli esempi musicali; queste sezioni, che solo per approssimazione ho definito «di raccordo», in realtà sono tra le più interessanti del libro, e non aspirano a fornire una visione diacronica del tema, ma alla fine ne permettono la ricostruzione; coinvolgono essenzialmente il primo capitolo («Virgins, mountains, opera»), parte del secondo («"At the foot of the Alps": the landscape of La sonnambula»), del terzo («Linda di Chamounix and the ideology of chastity») e dell’ultimo, nel quale l’autore traccia somiglianze e scarti all’altezza dei primi decenni del secolo di Fanciulla, sia rispetto alla diversa configurazione del paesaggio (l’America di Buffalo Bill vista da uno sguardo italiano) che rispetto alla diversa figura femminile («La fanciulla del West: a new landscape for a new virgin»).

Le singole opere hanno peso differente all’interno della rassegna: nel capitolo introduttivo, e nelle anse preliminari degli altri, si toccano altri libretti e partiture; solo a quattro titoli del repertorio delle vergini è riservato un capitolo monografico, nel quale l’autore dipana discorsi concentrici, allontanandosi e improvvisamente riaccostandosi al testo di partenza, allargando l’analisi ad intrecciare campi e problemi d’ordine differente. Forse è l’effetto euforico dell’aria di alta quota, ma non sempre le barriere tra discipline e visioni del mondo connaturate ad esse sembrano insuperabili. Si può parlare di argomenti differenti con competenza, districandosi nell’ampia bibliografia, senza perdere il filo e senza scadere nell’approssimazione. Si possono stringere insieme, oltre ad osservazioni d’ordine musicologico (varietà di metodi anche qui, secondo un tonico eclettismo), le prospettive degli studi culturali, della storia della mentalità, della sociologia letteraria e degli studi sulla cultura visuale, ovvero sulla struttura della visione propria di una determinata epoca storica. E questo è un primo, interessante risultato offerto dal libro.

Costruzione del femminile e riflessi culturali insiti nella costruzione del paesaggio: si è detto, il tema unificante. Una delle principali prospettive critiche che guidano la ricognizione fa capo innanzi tutto ai gender studies di ascendenza americana. Eppure la profondità prospettica che risalta nelle pagine del volume raramente si incontra in altre ricerche, di media o vasta gittata, inerenti all’identità sessuale in musica; e non è frequente nemmeno nella dimensione più consona a questo tipo di approccio, a breve gittata, del saggio che segnala la strada non battuta o la provocazione fulminante. Rispetto alle intuizioni brillanti ma superficiali dei coniugi Hutcheon o alle provocazioni battagliere dei primi saggi di Susan McClary, l’approccio è meditato, stratificato: il discorso sotterraneo della costruzione culturale del femminile da parte maschile affiora a tratti, indirettamente; in compenso, la sostanza del ragionamento si fa corposa, di pagina in pagina, grazie al sovrapporsi di letture e collegamenti. Alla prospettiva filologica, che innerva alcuni paragrafi, si accompagna la tradizionale comparazione tra fonti letterarie e trascodificazione librettistica, per quasi tutti i casi esaminati; allo sguardo psicoanalitico (che offre una visione di sintesi sulla costruzione del femminile ottocentesco, quando si parla dell’esempio di isteria freudiana ante litteram in Linda), si accompagnano assaggi di storia della sessualità e del discorso culturale ad essa riferito, che riconducono alle ricerche di una generazione cui Foucault illumina la strada.

Se dovessimo indicare un lontano corrispettivo di tale eclettismo tra letture più familiari al pubblico italiano, si potrebbe pensare agli studi di letteratura comparata, beninteso intrecciati con le suggestioni polimorfe della variopinta tribù dei cultural studies. Nel primo caso, vengono in mente i libri di Franco Moretti, interessato d’altro canto più alla morfologia dei generi letterari che alle singole concrezioni, come invece è Senici, la cui trasversale competenza (nel passaggio tra letteratura, contesto socioculturale e musica) è rovesciata, rispetto a Moretti e ai comparatisti: la musica è il punto di partenza e di arrivo. Tuttavia gli accostamenti ai testi letterari sono citazioni puntuali, familiari, velatamente nostalgiche – una buona manciata di riferimenti, ovvio, se la accaparrano i Promessi sposi, con il loro ambiguo intreccio di idealizzazione e realismo nella costruzione di una vista ‘ai piedi’ delle Alpi; ma anche l’accostamento tra la Minnie pucciniana e Ketty di Gozzano è impagabile. E questo sguardo trasversale sembra abbastanza inedito anche nel panorama della musicologia anglosassone.

Le opere esaminate non sono sempre tra quelle che allettano di più. Spesso, anzi, sono oggetti viscidi e sfuggenti: la sperimentale Luisa Miller, l’improbabile Fedora, per non parlare di Fanciulla, imbarazzante nella sua esibita aridità melodica e spesso irritante per lo stridore tra stereotipi del maschile e sdolcinatezza di alcune situazioni. Per giunta, i primi capitoli sono monografie su due drammi che appartengono al genere delle famigerate, oggi quasi ineseguibili, opere semiserie. Oggetti, invece, tanto più interessanti per uno studioso, proprio in virtù del loro essere sempre ‘semi’. Le coordinate dei ‘generi’, in letteratura come nella musica, sono rassicuranti paraocchi che confortano autori e pubblico, quindi l’incertezza classificatoria ha in sé altrettanti, se non maggiori, vantaggi. Come avrebbe detto Guido Almansi, «il genere letterario è un biglietto da visita di andata e ritorno in un viaggio organizzato per il mondo della letteratura [e del melodramma, aggiungo]: il viaggio sarà comodo ma poco avventuroso». Il viaggio compiuto da Senici tra vergini, paesaggi alpini e coordinate dell’opera semiseria è tutt’altro che prevedibile, giusta l’incertezza del genere in sé: ibrido, contaminato. La stessa dimensione sfuggente si ritrova anche nelle opere più tarde, Fedora, Wally e Fanciulla, altrettanto mescidate e – le ultime due, almeno – sperimentali.

Del polimorfismo critico nel libro, valga un solo esempio: Sonnambula. Chi ne studia la nascita e i diversi aspetti nell’arte e in letteratura sa bene che il paesaggio in natura non esiste, ma è un prodotto culturale ed esprime il punto di vista di chi osserva: si può dire lo stesso per il paesaggio operistico. Quando cambia l’ambientazione, dalla fonte al libretto, conviene drizzare le orecchie. In Sonnambula, si passa appunto dalla Camargue (Scribe e Aumier) alle Alpi (libretto di Romani), che nell’Ottocento non sono più un luogo di frontiera, selvaggio, ma una dimensione di riferimento per la sensibilità estetica europea, in cui si proiettano contenuti ideali. Spazio del sublime, inaccessibili e incontaminate (per Schiller), ma anche ultimo rifugio di una società idilliaca memore dello ‘stato di natura’ (per Rousseau), le Alpi sostituiscono la campagna arcadica, luogo di pace e innocenza in opposizione alla città. È una questione di pubblico, ricorda Senici (p. 35) – e qui il discorso meriterebbe un affondo più deciso, talmente è interessante – chiamando in causa l’allargamento e la diversa composizione sociale della popolazione colta: le nuove élite cittadine, formate dagli inurbati di recente data, conoscono e ricordano troppo bene la vita di campagna per proiettarci valori ideali.

Il discorso su paesaggio realistico e idealizzato in Sonnambula viene condotto, fin da principio, anche da altre prospettive. Se ne valuta l’intertestualità rispetto a La Nina ossia la pazza per amore di Paisiello, già rilevata da Petrobelli nei Puritani. L’ambivalenza nella rappresentazione del paesaggio e della comunità degli abitanti del villaggio, tutt’altro che difensori dell’innocenza, marca la distanza da Rousseau, mentre siamo vicini allo sguardo manzoniano. Narrando la biografia vocale della protagonista, altri strumenti critici vengono portati in scena: si intrecciano le armi tradizionali di drammaturgia musicale e filologia (versioni differenti della partitura nella storia della recezione), insieme alla riflessione su come la musica contribuisca a definire il gender.

Questo è il punto: le opere non sono oggetti indifferenti alla definizione culturale dell’identità. Come la letteratura e le arti visive, partecipano attivamente alla complessa vicenda della sua costruzione, ne plasmano i modelli e hanno a che fare con la costruzione della sessualità e del desiderio. Sonnambula sembra una fiaba: la povera orfana, a torto accusata, vince le calunnie e sposa un principe azzurro in versione borghese, cioè il ricco possidente del villaggio. Come insegnava, negli anni Settanta, Elena Gianini Belotti, le fiabe non sono mai innocue. Infatti nella lettura di Senici Amina è un personaggio che cambia. Cambia il suo modo di cantare. Le viene ricacciato in gola il canto, la sua voce ‘schiacciata’: viene costruita così. Nel I atto canta la comunione tra natura e emozioni e la perfetta integrazione nel paesaggio e nella società armoniosa formata dagli abitanti del villaggio. Poi si incrina qualcosa, già in presenza di Elvino, nel duetto in cui la voce femminile è retrocessa a pertichino. Non si libra più con disinvoltura nel registro acuto ed è mortificata in una tessitura penalizzante, anche nella prima parte dell’aria finale; la spezzatura dei versi, nella linea melodica della cabaletta conclusiva («Ah non giunge // uman pensiero») non fa che aumentare i sospetti: questo è tutt’altro che un idillio, i rapporti di forza che si esprimono attraverso le voci rimangono instabili e sbilanciati. Le Alpi, paesaggio dell’innocenza, costituiscono ormai una dimensione rispetto alla quale si può solo misurare il distacco e la perdita.

Anche la storia delle versioni che, indipendentemente da Bellini, penalizzano ulteriormente la vocalità di Amina, abbassandone la parte e vietandole il completo dominio dei registri, contribuisce a rafforzare una lettura inedita, condotta da un occhio allenato al sospetto. La riappropriazione di sé e della propria dignità, da parte di Amina, mediante la liberazione della voce, la riconquista di un registro vocale non subordinato a quello maschile, viene infine riconosciuta nelle scelte operate dalle cantanti, in particolare dalla Callas. Nell’interpretazione callasiana «la giovane innocente sembra aver imparato che il mito russoviano della perfetta comunione tra gli esseri umani, e in particolare tra uomini e donne, che vivono nelle Alpi – mito del quale La sonnambula è stata vista come una delle più perfette incarnazioni – è una finzione. Questa comunione perfetta può facilmente volgersi nell’oppressione degli uomini sulle donne» (p. 90). Aggiungo solo questo: per approfondire un discorso che, nell’analisi musicologica, porti finalmente in primo piano la statura dell’interprete e ne traduca il pensiero, occorrerebbe una nuova disciplina, dotata di una metodologia completamente da affilare, atta a quantificare con criteri scientifici l’apporto di quegli esegeti del testo melodrammatico che sono i cantanti – e forse solo dall’analisi performativa degli etnomusicologi ne verrebbe qualche lume.

 

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[Bio] Marco Emanuele si è diplomato in Composizione e Musica corale a Torino, e attualmente insegna Italiano e Storia alle scuole superiori. Negli ultimi anni ha pubblicato fra l'altro Opera e riscrittura (2001) e Voci, corpi, desideri (2006). E-mail memanuele@interfree.it

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( 2009-11-24 )

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