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Contributo di Resoconto

 

Convegno internazionale di studi Composizione e sperimentazione nel rock britannico 1966-1976

Università degli Studi di Pavia, Facoltà di Musicologia, Dipartimento di Scienze musicologiche e paleografico-filologiche

Cremona, sala «Alfredo Puerari» del Museo Civico «Ala Ponzone» e Palazzo Cittanova, 20-22 ottobre 2005

a cura di Gianmario Borio e Serena Facci

 

 

Si è svolto dal 20 al 22 ottobre 2005 il convegno internazionale di studi Composizione e sperimentazione nel rock britannico 1966-1976, organizzato da Serena Facci e Gianmario Borio, tenutosi tra la sala «Alfredo Puerari» del Museo Civico «Ala Ponzone» e il suggestivo Palazzo Cittanova a Cremona. Un’iniziativa in grande stile che per la prima volta ha portato a Cremona alcuni tra i migliori ricercatori italiani e stranieri nel campo dei popular music studies, a testimoniare l’importanza che queste discipline stanno cominciando a ricoprire in Italia – purtroppo vittima di un ritardo culturale di qualche decennio rispetto ai paesi anglosassoni, sebbene in questi ultimi anni anche nel nostro paese gli studi riguardanti la popular music abbiano saputo trovare rapidamente uno spazio importante nel dibattito accademico. In tale contesto uno dei principali attori è stata la sezione italiana della IASPM (International Association for the Study of Popular Music), che fin dalla sua fondazione all’inizio degli anni Ottanta si è battuta per testimoniare l’importanza dello studio scientifico di quest’aspetto della cultura popolare contemporanea. Una delle migliori dimostrazioni del successo di questi sforzi ventennali è stata l’organizzazione di questo convegno, promosso dalla Facoltà di Musicologia e dal Dipartimento di Scienze musicologiche e paleografico-filologiche dell’Università degli Studi di Pavia, dalla Fondazione «Walter Stauffer», dal Comune e dalla Provincia di Cremona, e dalla stessa IASPM Italia, che nei suoi tre giorni è riuscito a dare una panoramica a tutto tondo dello ‘stato dell’arte’ degli studi odierni sulla popular music e a offrire ai numerosi presenti una lunghissima serie di temi ancora da investigare, come stimolo per il futuro di questo tipo di ricerche.

Argomento del convegno è stato un periodo di capitale importanza nella giovane storia del rock, quello che si è aperto nel 1967, data di uscita di Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band dei Beatles, e si chiude alla fine degli anni Settanta con l’esaurimento del linguaggio del rock progressivo, quando questo genere musicale smetterà di essere una forza trainante all’interno della musica popolare contemporanea. La seconda data scelta per inquadrare il periodo oggetto di discussione è infatti il 1976, anno immediatamente precedente all’esplosione del punk, un movimento sociale e culturale che ha decostruito le basi stesse su cui il genere progressive rock si fondava, decretando la fine di quell’epoca. Ma il tipo di ricerca intrapresa durante questo periodo dai musicisti che facevano parte dei gruppi progressive ha lasciato alcune importanti eredità, prima tra tutte la forma del concept-album – preconizzata dai Beatles con il loro Sgt. Pepper’s, il primo disco nella storia del rock costruito interamente intorno a un’idea, a un concetto –, che in questi anni diventa la forma compositiva preferita da moltissimi complessi inglesi, decisi a rinnovare radicalmente la popular music e a mettere in discussione i fondamenti costitutivi della canzone, del blues, della ballad. La tendenza verso forme di composizione di più ampio respiro rispetto a quelle abituali nel rock non si è manifestata solamente nell’uso della forma del concept-album, che pure rimane una conquista importantissima del progressive rock, ma anche nell’impiego di particolari dispositivi e logiche di concatenazione armonica, nell’utilizzo di strumenti prima inediti nella popular music, nell’uso consapevole dell’elettronica e dello studio di registrazione come parte integrante del processo compositivo, nelle citazioni tratte dai più vari generi musicali, nella costruzione di testi che si distaccano notevolmente dalla tradizione della musica leggera. Tutti questi aspetti prefigurano un tipo di atteggiamento creativo che non è specifico del rock, ma che al contrario sembra avvicinarsi per molti versi a quello dei contemporanei compositori d’avanguardia e dei jazzisti appartenenti alla corrente del free jazz più radicale. Tale convergenza tra musicisti e compositori provenienti da ambienti culturali e sociali diversissimi rappresenta un soggetto particolarmente interessante, utile a illuminare meglio questo periodo eccezionale nella storia della musica del XX secolo, dove per l’ultima volta musiche colte e popolari sono riuscite a comunicare fruttuosamente, scambiandosi reciprocamente esperienze e tecniche compositive.

La prima sessione del convegno, presieduta da Maurizio Agamennone con John Covach, Franco Fabbri e Veniero Rizzardi come relatori, è stata dedicata al paesaggio culturale, a quell’incredibile crogiuolo di tendenze artistiche, culturali e politiche che era l’Inghilterra, e in particolare Londra, negli anni Sessanta. Ha aperto la discussione la relazione di John Covach, metodologicamente una delle più interessanti dell’intera manifestazione, dedicata all’estetica del primo periodo del progressive rock, caratterizzata da un superamento della tematica amorosa tipica della maggior parte della popular music precedente e coeva e, in generale, da ambizioni che andavano ben al di là degli orizzonti della cultura popolare. Per questo motivo i modelli compositivi utilizzati da questi gruppi vengono sempre più ricalcati su quelli del jazz e della musica colta, arrivando a travalicare i confini della canzone per giungere alla forma complessa del concept-album, un’opera che si confronta sia con un diverso modo di comporre da parte dei musicisti, sia con un diverso tipo di ascolto da parte del pubblico. Il concept-album nel rock è una vera e propria opera dotata di più livelli di significazione, dalla musica ai testi, alla copertina. Un esempio in particolare aiuta a chiarire l’importanza di quest’ultimo elemento nel progressive rock. Covach si riferisce a Thick as a Brick dei Jethro Tull, la cui copertina è un vero e proprio ‘giornale’ (graficamente impaginato come un quotidiano) nel quale Ian Anderson e compagni spiegano il significato del disco. Una parte fin qui considerata marginale nella produzione del disco diventa in Thick as a Brick un tassello imprescindibile per comprendere appieno il messaggio contenuto nell’LP. Una sinergia tra media che il progressive rock comincia a sviluppare nel suo periodo d’oro, ma che ha avuto importanti conseguenze sul modo attuale di comporre e di strutturare i dischi in molti gruppi rock, manifestandosi nell’opera di complessi apparentemente molto distanti dal progressive, come Radiohead, Mars Volta, Metallica e altri.

Franco Fabbri ha concentrato la sua attenzione sul periodo immediatamente precedente quello del progressive rock, andando a sviscerare le peculiarità stilistiche dei gruppi che lo hanno preceduto. In particolare la prima parte della relazione si focalizza sui gruppi surf e di musica strumentale degli anni Cinquanta e Sessanta, dai Beach Boys agli Shadows, e sulla ricerca da loro compiuta sul suono. Questo parametro assumerà negli anni successivi un’importanza fondamentale, con una tendenza sempre crescente da parte dei musicisti a personalizzare e rendere sempre più riconoscibile il proprio suono. Infatti nella parte conclusiva del suo intervento Fabbri si concentra sui più diretti predecessori della stagione del progressive, i Beatles e i gruppi della cosiddetta British invasion della fine degli anni Sessanta. Con questi complessi l’attenzione a livello timbrico ritorna a focalizzarsi soprattutto sulla voce, com’era nel rock’n’roll degli esordi e nelle canzoni di Tin Pan Alley, ma con un’attitudine più sperimentale e innovativa, che cerca di rendere la linea vocale uno strumento tra gli altri strumenti. Con il rock progressivo questa tendenza si accentuerà ancora di più, con un uso sempre più consapevole degli effetti e dello studio di registrazione, oltre ad una ricerca ininterrotta che arriverà ad includere nel rock strumenti appartenenti alla tradizione colta ed etnica (si pensi all’uso del sitar nelle canzoni dei Beatles). Ha concluso la sessione mattutina del convegno Veniero Rizzardi, con una riflessione sul rapporto tra il compositore, inteso nel senso ‘classico’ del termine, e il rock, specie quello di matrice progressiva. Di fronte ad artefatti culturalmente così complessi come quelli che vediamo essere prodotti all’interno del progressive rock, spesso le nostre abitudini culturali sono messe in seria discussione, siamo costretti a rivedere una serie di paradigmi solitamente dati per scontati e che ad un esame critico rivelano tutta la loro fragilità. Da qui l’autocritica del compositore, che si trova nella posizione di dover ridisegnare le proprie coordinate culturali, innescando una ridefinizione complessiva, il cui esito è tutt’altro che scontato, di ciò che appartiene alla cultura ‘alta’ e ciò che appartiene alla cultura ‘bassa’ o popolare.

La seconda sessione del convegno, presieduta da Giordano Montecchi e a cui hanno partecipato Christophe Pirenne, Lelio Camilleri e Laura Leante, è stata dedicata ai nuovi strumenti e alle nuove tecnologie che si sono affermate nel decennio preso in esame. La relazione di Pirenne si è incentrata sul ruolo che i mass media hanno svolto nella diffusione e nel successo del progressive rock e sull’evoluzione tecnologica che li ha accompagnati, specie quella che riguardava la generazione e modificazione elettroacustica del suono. Secondo lo studioso belga soprattutto due sono stati i fattori alla base della diffusione di questo tipo di rock: da una parte la nascita delle radio pirata, con una programmazione alternativa a quella delle radio di Stato e di quelle commerciali, dall’altra parte il perfezionamento delle macchine che generavano suoni, con l’avvento dei sintetizzatori e delle loro infinite possibilità timbriche. Queste considerazioni dimostrano come il progressive sia stato un genere musicale che più di ogni altro ha saputo interpretare lo spirito del suo tempo e sfruttare nel modo migliore tutte le possibilità (teoriche, compositive, ideologiche, tecnologiche) che aveva a disposizione. Lelio Camilleri si è occupato dell’utilizzo nella composizione di loop e di frammenti registrati trattati elettronicamente attraverso effetti di eco e sovrapposizione di strati sonori, un elemento che ha trovato nella musica di Terry Riley negli anni Sessanta uno dei suoi primi sviluppi artisticamente rilevanti. Di particolare interesse per quest’aspetto la collaborazione del compositore americano con William Burroughs, pioniere della beat generation e sperimentatore instancabile, che ha ritrovato nella tecnica letteraria del cut-up il perfetto pendant della ricerca sonora portata avanti da Riley. Tali sperimentazioni sono entrate da subito a far parte del DNA della popular music, a cui hanno dato nuove possibilità timbriche e di sperimentazione. L’ultima parte della relazione di Camilleri si è concentrata sulla canzone Baba O’Riley degli Who, che utilizza l’eco e la sovraincisione come parte fondamentale della sua costruzione sonora, dando uno degli innumerevoli esempi di impiego di queste tecniche da parte dei musicisti rock del periodo. Ha chiuso la sessione pomeridiana del primo giorno di convegno la relazione di Laura Leante, che si è concentrata sul cambiamento avvenuto nel corso del tempo nelle performance dal vivo di The Musical Box da parte dei Genesis, con particolare attenzione per il cantante Peter Gabriel. Durante le versione dal vivo di questa canzone, Gabriel dapprima si traveste da donna e porta una maschera da volpe (richiamo all’album Foxtrot), mentre in un secondo momento comincia a utilizzare un travestimento da vecchio (durante il tour successivo), un cambiamento che ha importanti ripercussioni a livello semantico e semiologico. Nel primo caso il cantante è l’oggetto del desiderio, nel secondo è il desiderante, uno spostamento di ruolo che indica la possibile coesistenza di diverse narrazioni all’interno di uno stesso brano. È stato possibile esaminare questo elemento solo attraverso lo studio della performance dal vivo di questo brano, un campo relativamente nuovo all’interno dei popular music studies, che apre il campo a future ricerche centrate sul momento, importantissimo nel rock, del concerto, che dà al gruppo la possibilità di ‘portare in scena’ le proprie canzoni.

La terza sessione del convegno, presieduta da Marco Mangani, ha visto Mark Spicer, Allan Moore e Vincenzo Caporaletti confrontarsi con l’analisi delle tecniche compositive di tre album fondamentali del progressive rock. Il primo relatore è stato Mark Spicer, che ha presentato la sua analisi di Foxtrot dei Genesis aiutandosi con vari esempi suonati al pianoforte, volti a chiarire quale sia la provenienza dei principali modelli compositivi utilizzati da Peter Gabriel e compagni in questo disco.

Particolarmente interessante la sua disamina di Supper’s Ready, la suite che occupa più della metà di Foxtrot, nella quale Spicer ritrova chiari indizi della provenienza colta di gran parte dei materiali formali e accordali utilizzati, tratti per lo più da tipici procedimenti compositivi del tardo Ottocento e del primo Novecento (ad esempio nelle reminiscenze de Le Sacre du Printemps di Stravinskij all’interno di Apocalypse in 9/8, sesta parte della suite).

Segue Allan Moore, che dedica la sua analisi a Octopus dei Gentle Giant, un’altra pietra miliare del progressive, anche questo pubblicato, come Foxtrot dei Genesis, nel 1972. Octopus è un disco in cui, a dispetto dei moltissimi generi che vengono presi come fonte d’ispirazione (il jazz, la musica colta, il folk, la musica antica…), le formule compositive fondamentali sono limitate quasi esclusivamente all’uso di semplici modelli scalari ascendenti e discendenti. Su questo scheletro i Gentle Giant costruiscono i loro brani per accumulazione, aggiungendo strumenti e voci con una tecnica che si potrebbe definire in tutto e per tutto contrappuntistica, fino a creare degli edifici sonori suggestivi e molto complessi. La qualità progressiva di questi brani va ricercata più nell’uso di determinati marcatori stilistici tipici di questo genere musicale, quali ad esempio l’uso di tempi dispari, i cambi di tempo improvvisi, l’uso massiccio dei sintetizzatori per rendere particolare il suono.

Chiude la sessione Vincenzo Caporaletti, che per motivi di tempo è stato costretto a presentare solo in parte la sua dettagliatissima analisi di Third dei Soft Machine, particolarmente interessante data la presenza in sala di Hugh Hopper (bassista del gruppo), che più tardi sarà sul palco per il workshop Le procedure compositive nei gruppi progressive rock. Partendo da un minuzioso lavoro di trascrizione integrale dell’intero disco e utilizzando tutte le potenzialità del protocollo MIDI, Caporaletti ha messo in luce le principali caratteristiche compositive che costituiscono la base dell’album. In particolare, la sua analisi si è concentrata sulle caratteristiche metriche della costruzione dei riff e sul vocabolario armonico-modale utilizzato dai Soft Machine, che rispetto agli altri gruppi progressivi mostrano una spiccata tendenza verso modelli compositivi provenienti dal jazz piuttosto che dalla musica di ascendenza eurocolta.

Ospitato nella splendida cornice del medievale Palazzo Cittanova, il pomeriggio del secondo giorno di convegno è stato interamente occupato dal workshop Le procedure compositive nei gruppi progressive rock, voluto dagli organizzatori come momento di confronto tra musicisti, musicologi e pubblico. Partecipano, in qualità di musicisti-relatori, Chris Cutler, batterista degli Henry Cow, il già citato Hugh Hopper, bassista dei Soft Machine, e Toni Pagliuca, tastierista storico de Le Orme. Tre musicisti provenienti da esperienze diversissime che hanno voluto mettersi in gioco appositamente per quest’evento, preparando per l’occasione alcuni brani musicali e rendendosi disponibili alle domande dei relatori del convegno e del pubblico, accorso numerosissimo per assistere a questo eccezionale appuntamento. La formula del workshop prevedeva l’esecuzione di alcuni brani dei Soft Machine (Facelift, Mousetrap) e de Le Orme (Aliante, Evasioni Totali), riarrangiati per l’inedita formazione a tre e spesso mescolati gli uni agli altri. Ai pezzi strumentali si sono alternate le domande del pubblico che, stimolato dalla qualità della musica dei tre, è intervenuto con entusiasmo, a testimonianza di un interesse ancora vivo e vitale per questo genere musicale, a tanti anni di distanza. Nelle performance stupisce l’energia con cui i musicisti si lanciano nelle reinterpretazioni dei propri pezzi: Pagliuca, forte del suo Hammond e del Leslie entrambi risalenti agli anni Settanta, dopo qualche incertezza sull’iniziale Facelift riesce a riprendere il ritmo e non sfigura davanti ai colleghi inglesi, Cutler mostra una tecnica impressionante e un drumming preciso quanto interessante nei continui cambiamenti d’accento, Hopper si conferma un bassista d’eccezione, sensibile alla melodia ma infallibile nel mantenere costantemente vivo il groove dei brani. Lo spazio delle domande è dedicato principalmente agli aspetti compositivi all’interno dei gruppi da cui i tre provengono, come vuole il titolo del workshop, ma anche su altri temi come l’eredità del progressive nella musica popolare contemporanea, il concetto di sperimentazione che veniva applicato alla composizione all’interno di questi complessi, le tappe che storicamente hanno segnato l’inizio e la fine del progressive rock. Particolarmente interessanti in questo contesto le risposte date da Cutler, che spiega dettagliatamente quali erano le particolarità di un gruppo come Henry Cow, vero e proprio crocevia di sperimentazioni musicali arditissime a cavallo tra rock, jazz e avanguardia. Hopper tratteggia il quadro riguardante i Soft Machine, complesso di orizzonti culturali molto diversi rispetto a quelli entro cui si muovevano Cutler e compagni, inserito all’interno dell’ambiente della Swingin’ London e vicino ai fermenti più radicali del movimento hippie inglese. Pagliuca, infine, racconta la sua storia all’interno de Le Orme, gruppo protagonista dell’indimenticata stagione del progressive italiano, rivendicando l’importanza di un’esperienza che, lungi dall’essere un mero calco di modelli stranieri, riuscì a dare una forte scossa al mondo della musica del nostro paese e a creare uno stile autonomo, che s’ispirava a quel genere ma lo rielaborava secondo coordinate personali, tipicamente italiane.

L’ultima giornata del convegno si è aperta con una sessione dedicata ai testi e alle melodie del progressive rock, presieduta da Stefano La Via e animata dalle relazioni di Dai Griffiths, Roberto Agostini e Luca Marconi. Griffiths, in una relazione dal provocatorio titolo Memorable music, forgettable words? Dilemmas of song in british progressive rock between underground and mainstream, circa 1972, ha cercato di dimostrare come in molti casi nel progressive rock a una forma musicale complessa si affianchino dei testi molto banali a livello metrico e rimico. Per i gruppi di questo periodo spesso le parole delle canzoni hanno un’importanza veramente marginale, come si può notare all’ascolto della cover di America di Simon & Garfunkel che si trova in Keys of Ascension degli Yes. In questa versione del brano il testo viene modificato, frammentato dai lunghi intermezzi strumentali, sottoposto a una serie di alterazioni che ne snaturano il senso proprio, fino a farlo diventare un mero pretesto compositivo. Inoltre, Griffiths sottolinea come, in un genere di musica dal punto di vista tecnico così raffinato, spesso i testi nascano da artifici letterari triti e abusati, come le allitterazioni in The Endless Enigma di Emerson, Lake and Palmer o il chiasmo in I Know What I Like (In Your Wardrobe) dei Genesis.

La relazione di Roberto Agostini e Luca Marconi si è concentrata sul rapporto tra voce, linea melodica e testo nel progressive rock – un aspetto che si colora di connotazioni molto diverse all’interno dei gruppi progressive dell’epoca –, andando a investigare una serie di casi paradigmatici. Tra gli spunti più interessanti di questa ricca relazione si possono citare i paralleli, soprattutto testuali e ideologici, tra Also sprach Zarathustra di Nietzsche e Trespass dei Genesis, oppure l’analisi che i due relatori fanno di In the Court of the Krimson King dei King Krimson, centrata principalmente sulle variazioni timbriche della voce, un parametro che viene in questo caso utilizzato dal gruppo per chiarire e spiegare il significato dei testi del disco, il suo concept. Molto numerosi sono in questa relazione i confronti tra i brani della stagione del rock progressivo e quelli dei Beatles, i predecessori più diretti di questo genere musicale, che hanno aiutato a chiarire quale sia stato il percorso ‘evolutivo’ degli elementi testuali, melodici e concettuali che il rock degli anni Settanta riprende dal periodo immediatamente precedente.

Ha concluso i lavori del convegno la tavola rotonda dal titolo Le procedure compositive all’incrocio tra i generi, in cui compositori come Nicola Sani, Mario Garuti e Maurizio Pisati si sono confrontati con i musicologi Serena Facci e Gianmario Borio e con i musicisti Chris Cutler e Hugh Hopper. Tema principale della tavola rotonda è stato il rapporto tra questi compositori e la popular music, un argomento che anche Rizzardi aveva toccato nel corso della sua relazione, nella prima sessione del convegno. Pisati, Garuti e Sani raccontano in particolare quale sia stato l’impatto del rock progressivo nella loro esperienza musicale e nel cambiare, in parte, le proprie abitudini d’ascolto e di concezione della musica. I due musicisti, Cutler e Hopper, chiariscono il rapporto inverso: quanto siano state incisive le sperimentazioni dell’avanguardia nella composizione e nel tipo di percorso che il rock progressivo è andato a seguire negli anni Sessanta e Settanta. Infine, Serena Facci e Gianmario Borio ‘chiudono il cerchio’ aggiungendo ai punti di vista precedentemente citati quello, rispettivamente, dell’etnomusicologo e del musicologo, andando ad inserire un tassello importante nella discussione e nella comprensione di questa eccezionale stagione creativa. Si discute anche, come è d’obbligo alla fine di un convegno che voglia porsi come stimolo per il futuro, di tutti i gruppi di cui nel convegno non si è parlato (tra gli altri Pink Floyd, Jethro Tull, Emerson, Lake and Palmer) e delle prime conclusioni condivise emerse durante i tre giorni riguardo al rapporto tra composizione e sperimentazione nel rock inglese del decennio 1967-1976.

[a cura di Alessandro Bratus]

 

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( 2009-11-24 )

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