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Spontaneità organizzata ad ‘arte’. Il metodo compositivo di John Lewis
Abstract
Making Spontaneity into ‘Art’. The composition method of John Lewis Composer and Pianist of the Modern Jazz Quartet, John Lewis has created his own unique synthesis between different musical cultures, focusing on the specific characteristics that are shared by two traditions: the written and spoken form. Whilst considering the composition models that are a part of Classical European Music, he has introduced certain elements that are characteristic of Afro-American Music at the heart of the original composition structure, using a style of writing music that inextricably links the composer to the performer. The relationship between musical figures and the use of harmonies and musical structures that has been influenced by the European style join together in improvisation and this in turn conceals the point in which the ‘music composed’ flows into ‘spontaneous improvisation’. Through the analysis of music that clearly illustrates his composition style, the essays of the musician show how Lewis has organised the various elements above to demonstrate that all of these are necessary in order to fully understand every part of the quartet.
Compositore e pianista del Modern Jazz Quartet, John Lewis ha realizzato una personale sintesi tra culture musicali differenti, regolando nella sua opera quei tratti specifici appartenenti a due tradizioni culturali: una di tipo scritto e una di tipo orale. Rivolgendosi a modelli compositivi legati alla musica colta europea ha introdotto alcuni degli elementi distintivi della cultura musicale afroamericana all’interno di strutture compositive originali attraverso un metodo di scrittura che lega indissolubilmente la figura del compositore a quella dell’esecutore. Processi di connessione motivica, trattamento del materiale armonico e impianti formali di derivazione europea vengono combinati alla pratica improvvisativa e in essa assorbiti in modo da dissimulare completamente i punti di congiunzione tra composizione ‘preordinata’ e ‘istantanea’. Attraverso l’analisi di brani particolarmente rappresentativi del suo metodo compositivo, il presente saggio illustra il modo in cui Lewis ha organizzato tali fattori mantenendo come elemento imprescindibile il peculiare processo di apprendimento di ogni singolo componente del quartetto.
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La natura essenzialmente improvvisativa della musica jazz ha da sempre portato a identificare la figura del jazzista principalmente come autore di composizioni di tipo estemporaneo. Il fatto che l’improvvisazione abbia costituito e costituisca ancora oggi il principale veicolo di trasmissione in una cultura musicale essenzialmente legata ad una tradizione di tipo orale, ha infatti portato a considerare la ‘composizione istantanea’ come l’unico, distintivo prodotto di tale cultura. Questo assunto appare decisamente riduttivo, soprattutto se si considera che esiste un repertorio basato sull’ideazione di temi originali impostati su sequenze armoniche predeterminate (come accade per il giro armonico di un blues o di un rhythm change) o circoscritti a forme standardizzate (come la song form). Ancor di più, se si pone lo sguardo sulla produzione di alcuni dei più grandi maestri della storia del jazz, caratterizzata dall’abbandono delle consuete forme jazzistiche o dalla sintesi di queste con moduli o metodi ricavati dalla tradizione della musica d’arte europea. La quasi totalità di questo repertorio originalmente composto e a volte difficilmente etichettabile – dalla ‘preistoria’, all’avanguardia sperimentale e oltre – ha subito, dichiaratamente o meno, l’evidente incidenza della musica cosiddetta ‘colta’. Compositori come Joplin, Gershwin, Morton, Ellington, Mingus hanno adottato tecniche e modelli formali di derivazione europea, integrando perfettamente elementi afroamericani all’interno della composizione totale.[1] Allo stesso modo John Lewis, con l’essenziale collaborazione del Modern Jazz Quartet, è riuscito a raggiungere un alto livello di sintesi tra le due culture, attraverso l’interazione ininterrotta tra composizione ‘programmata ed estemporanea’.
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John Aaron Lewis è stato per più di quarant’anni la mente creativa e organizzativa del Modern Jazz Quartet, uno dei più longevi ensembles della storia del jazz. L’attività pluridecennale del quartetto e l’eccellente qualità degli strumentisti che lo hanno costituito hanno portato il gruppo a toccare i più alti livelli stilistici di ogni tendenza assunta dalla musica jazz durante la sua rapida evoluzione, sviluppando e mantenendo sempre intatto quel tipo di linguaggio che lo ha reso unico e inconfondibile. L’interesse di Lewis verso la musica colta di tradizione europea, iniziata nel periodo di studi alla Manhattan School of Music, e il suo successivo avvicinamento alla Third Stream, ha portato la produzione del quartetto ad inserirsi nel contesto di un genere musicale dalle sfumature inconsuete.[2] Eppure, l’impronta estremamente personale che ha caratterizzato lo stile del Modern Jazz Quartet per decenni è la naturale conseguenza di una molteplicità di fattori, primo fra tutti lo straordinario interplay fra gli strumentisti, certamente rafforzato dalla grande varietà di esperienze dei singoli e del gruppo stesso – che aveva costituito per anni, ad eccezione del batterista Connie Kay, la sezione ritmica dell’orchestra di Gillespie. In secondo luogo, a incidere sul linguaggio è stata la concezione polifonica delle improvvisazioni. Se si ascolta un po’ della vecchia musica di New
Orleans, si sentiranno diverse linee indipendenti muoversi
contemporaneamente. E funziona così bene perché ognuno di quegli
strumenti ha un carattere completamente differente dall’altro.
Questo è stato molto utilizzato nel Modern Jazz Quartet, perché
gli strumenti melodici erano vibrafono, piano e contrabbasso. Se
si ascoltano le registrazioni è possibile scomporre il brano e
ascoltare una linea per volta e sentire tre voci indipendenti.
Io provo a incorporare il blues in tutto quello che suono, per
trovare il modo per far parlare il blues e cerco di farlo in un
modo polifonico.[3] La stessa idea dell’improvvisazione come discorso giocato tra più voci individuali e indipendenti viene applicata da Lewis anche alla composizione. Grazie all’intesa quasi telepatica tra i musicisti, la singola linea può spostarsi dalle parti improvvisate a quelle composte integrandosi perfettamente e creando nell’ascoltatore un senso di continuità temporale – caso molto comune negli accompagnamenti di Lewis ai temi e ai soli di Jackson. Il sistema generativo di base risulta quindi seguire un principio che non distingue la pratica esecutiva dal processo compositivo, in modo tale che ogni azione, sia essa premeditata o meno, si rivela come la sistematica conseguenza della precedente, seguendo una serie di procedure logiche che passa dalle sezioni preordinate a quelle create estemporaneamente senza soluzione di continuità. Il più alto raggiungimento in una
composizione è quello di creare un pezzo che incorpora
l’improvvisazione al suo interno, senza mostrarne i punti di
congiunzione il più possibile, in modo tale da non poter
distinguere ciò che è improvvisato da ciò che non lo è.[4] Proprio questa singolare organizzazione del processo compositivo in aggiunta all’uso di tecniche, metodi di scrittura e strutture formali di derivazione europea ha contribuito a creare uno stile tanto originale.[5]
La Ronde Suite. Il concerto solistico come modello
La Ronde Suite (Prestige LP 7057, 1955)[6] è la rielaborazione di un pezzo composto da Lewis nel 1947 per l’orchestra di Dizzy Gillespie, intitolato Two Bass Hit (Victor LJM109, 1947). Tale brano aveva come strumento solista un contrabbasso e prevedeva l’esecuzione da parte dell’orchestra di brevi episodi alternati a lunghe pause destinate all’improvvisazione. Two Bass Hit fu chiaramente ispirato – nelle modalità d’esecuzione e più palesemente nel titolo – da una composizione dello stesso Gillespie dell’anno precedente, One Bass Hit (Musicraft 404, 1946), anch’esso concepito come alternanza di improvvisazione e accompagnamento ‘a riff’.[7] La stessa idea progettuale si ritrova in La Ronde Suite, in cui Lewis espande il medesimo giro armonico di Two Bass Hit a una serie di quattro pezzi, ognuno riservato all’improvvisazione di un singolo componente del quartetto, nel seguente ordine: pianoforte, basso, vibrafono, batteria. Il ruolo di ripieno dell’orchestra è ovviamente affidata alla restante porzione di gruppo, che fornisce la base armonico/ritmica al solista di turno e viene rielaborato melodicamente e ritmicamente da un movimento all’altro, secondo un processo di variazione che crea di volta in volta un nuovo brano su una equivalente successione armonica. La Ronde Suite è una struttura formata da più sezioni di uguale importanza e pensata primariamente per ospitare un unico discorso, giocato, come si è visto, tra solo e tutti. L’idea di base è chiaramente quella del concerto classico/romantico in cui il ruolo del solista è affidato all’improvvisatore. Non solo. La costruzione formale del brano (Tavola 1) presenta un’architettura piuttosto singolare. Le uniche forme riconducibili a strutture standardizzate sono il cosiddetto ‘Tema’ che segue una delle song form (ABAC) e l’episodio blues centrale; le restanti parti, oltre a introduzione e coda, sono passaggi di raccordo e transizione. Tavola 1. La Ronde Suite. Grafico formale. Le caratteristiche song form e blues form sono inserite in un contesto strutturale assai più complesso.
Eppure l’essenza particolarmente descrittiva del titolo potrebbe suggerire, a mio avviso, una decodificazione corretta della struttura. Il termine ‘suite’ – nell’accezione novecentesca di libero insieme di pezzi strumentali – è certamente riferito al livello più esterno della costruzione. L’espressione ‘ronde’ potrebbe invece indicare una successione di brevi composizioni di eguale tonalità, con un ritorno ciclico della stessa sequenza armonica o, con maggiore probabilità, fare riferimento ad una minimale forma di rondeau nascosta nella microstruttura del brano e interrotta da un episodio blues (A, B, A, C + A).
Django. Un insolito Jazz Standard
Django (Prestige LP 7057, 1955) è stato scritto nel 1954, in memoria del chitarrista belga Django Reinhard, scomparso l’anno precedente. Sicuramente il brano più celebre del Modern Jazz Quartet, è l’unico tra i lavori di Lewis ad essere entrato a far parte della tradizione degli standard jazz. La semplice forma, basata su un tema e una successione di chorus, permette una maggiore concentrazione sulla parte improvvisativa durante l’esecuzione e lo accomuna senza dubbio ad un tipico standard. Tuttavia la macrostruttura del brano, così come l’ossatura interna, rivela una divisione formale piuttosto anomala.[8] L’organizzazione delle varie sezioni segue un andamento speculare: un interludio al centro del pezzo (una diminuzione della seconda parte del tema iniziale) divide le due parti improvvisate, delimitate a loro volta dalla doppia esposizione del tema. Anche il livello formale intermedio dei chorus presenta una disposizione tripartita a specchio (12+8+12), ma con una divisione interna atipica: 6, 4 e 8 battute.
Proprio questa forma insolita rivela una
concezione compositiva da parte di Lewis molto lontana dalle comuni
pratiche jazzistiche. L’accostamento a un tema in ottavi reali (even
eights) di una parte quasi totalmente improvvisata in swing tempo,[9]
peraltro di struttura armonica differente,
dovrebbe comportare una sgradevole cesura ‘di stile’ tra le parti, che
in realtà non avviene. Il materiale armonico presente nelle
improvvisazioni è infatti una sorta di sviluppo di parte del tema,
giocato su un insolito accostamento di brevi episodi che vanno a
scomporre ulteriormente i moduli dei chorus, creando una ricca
varietà armonica.
Il materiale melodico utilizzato da Lewis durante le sezioni improvvisate non fa che accrescere questo senso di unitarietà, mantenuto all’interno del brano attraverso continue connessioni motiviche. Ad esempio le prime misure d’accompagnamento del pianoforte al primo chorus ripropongono un frammento del disegno melodico esposto in apertura del tema (X).
Così come una variazione ritmica della seconda parte del tema (Y), con inversione delle prime quattro battute.
Analogamente, il caratteristico charleston rhythm mantenuto dal pianoforte nei moduli B e la ripetizione di una cellula basata su una terza minore discendente, reiterata nelle parti d’accompagnamento e d’improvvisazione (come nella terza e quarta apparizione di B), fanno da collante tra tema e chorus. Gli stessi moduli che ricalcano in estensione la doppia suddivisione del tema, così come la riproposizione di parte di esso esattamente a metà del brano, conferiscono al tutto una salda continuità temporale.
Interazione tra programmazione e creazione estemporanea: Fontessa
Fontessa (Atlantic 1231, 1956) è uno dei primi lavori estesi di Lewis per il Modern Jazz Quartet. È un brano composto da quattro scene musicali, tematicamente relazionate fra loro, che formano una piccola suite dichiaratamente ispirata alla Commedia dell’Arte. Questo stesso soggetto sarà poi ripreso da Lewis in The Comedy (Atlantic 1390, 1962), un balletto composto tra il 1957 e il 1959. L’idea programmatica comune a Fontessa e The Comedy è appunto la rappresentazione delle maschere della tradizionale Commedia dell’Arte (in The Comedy esplicitata anche nei titoli dei singoli movimenti), attraverso una differente caratterizzazione stilistica delle varie sezioni del brano. Questa suite consiste in un breve
preludio per aprire il sipario e avviare il tema. Il brano dopo
il preludio si ispira al vecchio jazz e la parte improvvisata è
affidata al vibrafono. Potrebbe essere in carattere con
Arlecchino. Il secondo tema ha aspetti più moderni e la parte
improvvisata è affidata al pianoforte. Potrebbe essere in
carattere con Pierrot. La terza parte è impostata a formule
ancora più recenti e sviluppa il motivo principale. La parte
improvvisata è affidata alla batteria. Potrebbe essere in
carattere con Pantaleone.[10] Significativamente, in Fontessa è presente un dualismo del tutto analogo a quello che nella Commedia dell’Arte contrappone le parti scritte alle parti recitate estemporaneamente dagli attori sulla base di un ‘canovaccio’: il brano è infatti interamente giocato sull’alternanza e la combinazione di interventi prestabiliti e interventi improvvisati. Lo schema di base del pezzo presenta tre movimenti in swing tempo, ognuno costituito da tema e improvvisazione, e da un preludio in ottavi reali, in apertura e chiusura del brano. La struttura delle tre sezioni è basata su complessi modulari di trentadue battute che vengono abbreviati (con l’eliminazione di moduli), variati (tramite l’accostamento di moduli appartenenti a sezioni diverse) e a cui vengono interpolati micro-episodi di stacco e raccordo.
Tavola 4. Fontessa. Grafico formale.
Ad ogni movimento è stata conferita un’impronta caratteriale contrastante come può accadere in un concerto o in una sonata classica:
Tavola 5. La differenziazione di carattere delle varie scene musicali elaborata da Lewis in base a mutamenti di andamento, ritmo, modo e forma.
Nonostante le varie sezioni del pezzo subiscano via via un’elaborazione sempre differente, il materiale motivico impiegato è di dimensioni alquanto ristrette. I temi rivelano una stretta affinità tra loro, tanto da apparire ognuno come la derivazione del precedente.
La continuità stilistica tra un tema in ottavi reali e una successione di movimenti in swing tempo, basati su una diversa griglia armonica, è mantenuta attraverso lo sviluppo di parte della progressione iniziale e rafforzata dai continui richiami motivici che percorrono l’intera composizione (più di undici minuti di musica!). Quelle che seguono sono solo alcune delle varianti della cellula tematica principale del preludio (esempio 5), del secondo tema (esempio 6) e delle cadenze obbligate in chiusura di ogni modulo del secondo movimento (esempio 7).
Come si può osservare da quanto riportato sin’ora, il trattamento del materiale da parte di Lewis possiede un’impronta chiaramente ‘accademica’: processi di variazione, rielaborazione tematica e armonica, ritorno e sviluppo di frammenti melodico/ritmici. Straordinariamente, gran parte di queste tecniche vengono adottate estemporaneamente: frequenti richiami preordinati vengono ripresi dagli esecutori durante le improvvisazioni, creando un discorso unitario anche fra tema e relativo chorus. Analogamente, alcune delle parti riservate alla sola esposizione, subiscono un processo di variazione occasionale che crea un inaspettato assortimento tematico (è il caso della riesposizione dei temi del secondo e terzo movimento).
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Certamente la sintesi effettuata da Lewis ha contribuito alla realizzazione del personalissimo linguaggio del gruppo. La coesione di impianti armonico/formali, modelli di scrittura e di organizzazione del materiale derivati dalle due tradizioni, nonché l’assorbimento dell’improvvisazione all’interno della composizione totale, si sono dimostrati fattori dominanti. Tuttavia, l’ingrediente essenziale che ha permesso l’attuazione di questo processo logistico si è rivelato essere la scrupolosa attenzione di Lewis ai metodi di ricezione dei suoi strumentisti: ogni struttura compositiva è pensata non per un quartetto jazz, ma per il Modern Jazz Quartet ed esiste unicamente in funzione di questa precisa ‘formazione umana’.
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