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Contributo di Matteo Giuggioli

 

Immagine, suono, relazione mentale in «The Man Who Knew Too Much» (1956) di Alfred Hitchcock

 

 

Abstract

 

Alfred Hitchcock held an ambivalent position towards the sound elements of cinema. He remained faithful to the idea of ‘pure’ cinema, that is realized by telling of shots and sequences. Hence, he considered the dialogue as a little expressive resource, for its tendency to fell the narrative tension gained by the images. Otherwise, he considered sound effects and music as effective devices, because they are able to modify the rhythm of action or to voice the depth of the characters or the hidden forces of many dramatic situations. In his films Hitchcock often gave to sound effects and to the music a central role in the dramatization and in the settling of forms.

The Man Who Knew Too Much, in the second version of 1956, is a film completely pervaded by music. My analysis will examine the two sequences in which the song Whatever will be, by Jay Livingstone and Ray Evans, appears. The song is one of the most remarkable elements of diegetic music in the film (‘screen music’ according to Michel Chion’s terminology adopted in this article). The analysis aims to explain how the forms are organized around the music and to notice the results reached on the thematic level. In order to investigate the levels of sense impressed on the audiovisual structures at first I will refer to the concepts developed by Gilles Deleuze (in the first part of his study about cinema, L’image-mouvement) about the features of image in Hitchcock’s work. Deleuze identifies a visual ground principle, based on a mental relation, that in my opinion in The Man Who Knew Too Much involves also the sound elements operating inside the plot.

 

Alfred Hitchcock mantenne un atteggiamento ambivalente nei confronti degli elementi sonori del cinema. Fedele all’idea del cinema ‘puro’, che giunge a compimento nel racconto per inquadrature e sequenze, egli riteneva il dialogo una risorsa scarsamente espressiva, incline ad abbattere la tensione narrativa imposta dalle immagini. Diversamente, considerava i rumori e la musica dei mezzi efficaci per influire sul ritmo dell’azione e per esprimere l’interiorità dei personaggi o le forze sotterranee di molte situazioni drammatiche. Agli effetti sonori e alla musica Hitchcock affidò spesso, nei suoi film, un ruolo centrale nella drammatizzazione e nella definizione delle forme.

Un film completamente pervaso dalla musica è The Man Who Knew Too Much, nella seconda versione, del 1956. La mia analisi ne prenderà in esame le due sequenze in cui compare la canzone Whatever will be, di Jay Livingston e Ray Evans, uno degli elementi maggiori di musica diegetica (‘musica da schermo’ nella terminologia di Michel Chion che sarà impiegata nell’articolo). L’analisi si propone di delineare le modalità di organizzazione delle forme cinematografiche attorno alla musica e di rilevare gli esiti raggiunti sul piano tematico. Per sondare i livelli di senso impressi nelle strutture audiovisive mi riferirò in partenza ai concetti elaborati da Gilles Deleuze (nella prima parte del suo studio sul cinema, L’immagine-movimento) sulle caratteristiche dell’immagine nel cinema di Hitchcock. Deleuze individua all’interno della serie visiva un principio di fondo, basato sulla relazione mentale, che a mio avviso in The Man Who Knew Too Much influenza anche le componenti sonore attive nell’intreccio.

 

 

Abbreviazioni

 

***

 

Nella celebre intervista rilasciata a François Truffaut nel 1962, Hitchcock dichiara apertamente di non perseguire come obbiettivo, nel cinema, la rappresentazione naturalistica della realtà. Quale essenza della narrazione cinematografica, al tranche de vie egli oppone il principio drammatico, l’azione sfrondata dai dettagli inessenziali. Il dramma, sostiene, «è una vita dalla quale sono stati eliminati i momenti noiosi».[1] Di conseguenza, afferma che la sua maggiore preoccupazione consiste nel creare, con i mezzi espressivi del cinema, delle forme atte ad arricchire l’azione, che drammatizzino la storia fino a renderla «senza buchi né macchie», in grado di coinvolgere ed emozionare lo spettatore evitando interruzioni o cali di tensione.

Per il suo modo di intendere il cinema, ma forse anche a causa di pregiudizi suscitati dal suo successo presso il pubblico, Hitchcock fu a lungo frainteso e denigrato dalla critica americana, restia a considerarlo un ‘autore’ alla stregua degli altri grandi registi dell’epoca. I suoi film venivano accusati di essere privi di sostanza, di presentare situazioni inverosimili e di abusare di uno strumento di drammatizzazione come la suspense, ritenuta una forma inferiore di spettacolo. I giovani critici dei «Cahiers du cinéma», entusiasti sostenitori di Hitchcock, reagirono per primi contro le opinioni superficiali e tendenziose che si erano diffuse in America. Ribaltando i termini, dimostrarono innanzitutto quanto fosse assurdo, nel suo cinema, ricercare la sostanza al di fuori delle forme dello spettacolo. Eric Rohmer e Claude Chabrol (nel loro Hitchcock del 1957) riconoscono proprio nell’ineguagliabile capacità di inventare forme cinematografiche la peculiarità artistica del maestro inglese e sottolineano che nei suoi film la forma non interviene a ornare il contenuto, ma a crearlo.

A partire dalla nuova consapevolezza sul ruolo della forma espressa dai due colleghi, Truffaut, nell’introduzione all’intervista, chiarisce altri aspetti essenziali dell’universo creativo di Hitchcock. Soprattutto spiega come le sue costruzioni formali, accessibili a ogni tipo di pubblico e tese, in apparenza, soltanto a drammatizzare le vicende del racconto per captare l’attenzione dello spettatore, inneschino livelli di senso di alta complessità, assai diversi tra loro. Essi vanno dall’indagine profonda sui sentimenti, sulle pulsioni, sulle ossessioni umane, alla riflessione metalinguistica sull’arte cinematografica. L’esame della dimensione visiva permette inoltre a Truffaut di confutare l’accusa di inverosimiglianza che i critici americani muovevano ai film di Hitchcock e che egli sembrava avvalorare dichiarando di non essere interessato alla resa del vero. Truffaut osserva che, tramite l’eccezionale sensibilità nel filmare con le sole immagini i sentimenti e i più intimi rapporti tra gli individui, Hitchcock perviene a un realismo di grado superiore, che oltrepassa l’arbitrarietà dei materiali narrativi o degli stilizzati costrutti formali rivolti essenzialmente a intensificare la tensione drammatica.

Sul piano tecnico, la concezione hitchcockiana del cinema implicava la padronanza assoluta di tutte le risorse. Il regista maturò straordinarie competenze in tale senso sin dall’inizio della carriera, ricoprendo vari ruoli professionali all’interno delle compagnie di produzione che operavano a Londra. Oltre a dedicare estrema cura alla realizzazione delle inquadrature, Hitchcock sovrintendeva a ogni altra fase di lavorazione del film, dalla stesura della sceneggiatura, alla fotografia, al montaggio, alla selezione e sincronizzazione del suono. Tra le materie dell’espressione predilesse sicuramente l’immagine; si era formato e aveva esordito alla regia nell’epoca del cinema muto, pertanto mantenne sempre salda la convinzione che i film muti fossero «la forma più pura del cinema» e che il «modo cinematografico» di presentare una storia consistesse nel saperla raccontare per immagini.

Nei confronti dei significanti sonori Hitchcock mostrò un atteggiamento ambivalente. Fedele all’idea del cinema puro, che giunge a compiutezza nel racconto per inquadrature e sequenze, egli riteneva il dialogo una risorsa scarsamente espressiva. Ne deprecava anzi la pericolosa tendenza ad abbattere la tensione, a trasformare il cinema in «fotografia di gente che parla». Nei suoi film è spesso presente una sfasatura tra dialogo e immagine, sbilanciata in favore dell’elemento visivo. Alla situazione contingente affidata al parlato, neutra sul piano emozionale, viene sovrapposta, evocata dall’immagine, una dimensione nascosta, portatrice dei nuclei drammatici. Diversamente, Hitchcock tenne in grande considerazione i rumori e la musica, per il loro alto potenziale espressivo. Nel valore aggiunto[2] degli effetti sonori e della musica da buca sull’immagine reperì un mezzo efficace per influire sul ritmo dell’azione e per esprimere l’interiorità dei personaggi o le forze sotterranee attive in molte situazioni drammatiche. Si servì quindi della musica da schermo non solo per arricchire la narrazione, ma anche per incidere sull’equilibrio tematico. Agli effetti sonori e alla musica affidò, in molti casi, un ruolo centrale nella drammatizzazione e nella definizione delle forme.

Un film completamente pervaso dalla musica è The Man Who Knew Too Much, nella seconda versione, del 1956. Rispetto alla prima versione, girata nel 1934 in Inghilterra, Hitchcock arricchì con nuove immissioni la consistenza della componente musicale e ne perfezionò il rapporto con le altre dimensioni del testo filmico. La musica è presente nel film a vari gradi. C’è il commento musicale da buca composto da Bernard Herrmann; il compositore, che aveva iniziato a collaborare con Hitchcock dalla produzione precedente, A Trouble with Harry, dello stesso anno, in totale scriverà le musiche per sette suoi film, firmando capolavori quali Vertigo (1958) e Psycho (1960). Ci sono alcuni brani di musica da schermo; i principali, per il rilievo che assumono all’interno nella vicenda sono Storm Clouds Cantata di Arthur Benjamin, già al centro dell’intreccio nella prima versione, e la canzone Whatever will be di Jay Livingston e Ray Evans. Seguono la musica d’ambiente del ristorante di Marrakech, l’inno cantato dai fedeli nella Ambrose Chapel, la seconda canzone di Livingston e Evans, We’ll love again, eseguita da Doris Day all’ambasciata.

La mia analisi si concentrerà sulle due sequenze in cui compare la canzone Whatever will be, uno degli elementi maggiori di musica da schermo. Sarà indirizzata a delineare le modalità di organizzazione delle forme attorno a essa e a rilevare gli esiti raggiunti sul piano tematico. Per sondare i livelli di senso impressi nelle strutture audiovisive mi riferirò in partenza ai concetti elaborati da Gilles Deleuze (nella prima parte del suo studio sul cinema, L’immagine-movimento) sulle caratteristiche dell’immagine nel cinema di Hitchcock. Deleuze individua all’interno della serie visiva un principio di fondo, che a mio avviso, in The Man Who Knew Too Much influenza anche le componenti sonore introdotte nell’intreccio.

Il principio risiede nella relazione mentale, che dà luogo ad un tipo di immagine (immagine mentale), in cui l’azione non trova significato esclusivamente nella propria finalità o nei propri mezzi, ma appunto in una relazione che la fa rimandare a un terzo termine, rendendo palese un atto cognitivo. L’immagine mentale non coglie l’azione soltanto come rapporto che si instaura tra due termini, o forze, sulla base di una legge, ma introduce un’interpretazione. Afferma Deleuze che:

 

In Hitchcock le azioni, le affezioni, le percezioni, tutto è interpretazione, dall’inizio sino alla fine […] un’azione, essendo data (al presente, al futuro, o al passato), sarà letteralmente circondata da un insieme di relazioni, che ne fanno variare il soggetto, la natura la finalità eccetera. Ciò che conta non è l’autore dell’azione […] e nemmeno l’azione stessa: è l’insieme delle relazioni in cui sono presi l’azione e il suo autore.[3]

 

Deleuze spiega che l’immagine mentale fa nascere due generi fondamentali di relazione, naturale o astratta. La relazione mentale naturale, che egli chiama ‘smarcatura’, è prodotta dall’uscita di un elemento dalla serie di pertinenza, in cui gli altri sono soliti riconoscerlo. L’effetto è tanto più forte quanto più comune è l’oggetto che fuoriesce dalla trama consueta. Il filosofo mostra diversi esempi tratti dai film di Hitchcock, gli uccelli, per natura innocui, in The Birds (1963), il mulino in Foreign Correspondent (1940), le cui pale girano in senso contrario al vento, l’aereo solforante in North by Northwest (1959), che compare sebbene non ci siano campi da solforare. La relazione mentale astratta si attua invece nel ‘simbolo’, inteso non come pura astrazione, ma come oggetto reale che porta in sé diverse relazioni. Secondo tale accezione, è un simbolo, ad esempio, la fede in Rear Window (1954). Talvolta le smarcature e i simboli possono convergere nei medesimi elementi.

In The Man Who Knew Too Much gli estremi di una relazione mentale sono rintracciabili già nella frase che appare sullo schermo in apertura del film, in conclusione del passaggio orchestrale che ha accompagnato, con le sezioni di ottoni e percussioni inquadrate dalla macchina da presa, i titoli di testa. Sullo sfondo dei piatti, che il percussionista ha appena suonato nell’accordo finale del breve preludio strumentale, leggiamo: «A single crash of cymbals and how it rocked the lives of an American family». Capiremo molto più avanti, retroattivamente, il significato dell’enunciato. In esso è condensato il nucleo concettuale del racconto. Hitchcock non espone semplicemente un fatto, ma esibisce un ragionamento, una relazione mentale che agisce a partire da un elemento sonoro e musicale al tempo stesso. L’azione (il colpo di piatti) rimanda a una conseguenza (la rovina di una famiglia) che non può essere implicata se non per mezzo di un atto interpretativo.

Ovviamente, saranno gli eventi narrati nel film a mostrare il nesso tra i termini. Un’organizzazione criminale ha pianificato l’assassinio del Primo Ministro di una nazione (non specificata per motivi di censura), che dovrà avvenire a Londra durante l’esecuzione della Storm Clouds Cantata alla Royal Albert Hall. Il sicario, per occultare il rumore ha l’ordine di sparare in coincidenza del colpo di piatti che segna il culmine del brano. La famiglia americana dei McKenna, in vacanza a Marrakech, viene a conoscenza, per una serie di coincidenze, di alcuni particolari del piano e per questo subisce il rapimento figlio. Alla disperata ricerca del bambino, che infine avrà esito positivo, Jo e Ben McKenna saranno protagonisti di una concitata serie di vicende. Riusciranno, tra l’altro, a sventare l’omicidio durante il concerto.

La relazione espressa nella frase d’apertura va oltre gli avvenimenti, mira al nucleo tematico profondo del film. Hitchcock, secondo consuetudine, ce lo propone avvalendosi di una trama avventurosa, ricca di azione e di situazioni forti. L’argomento, complesso, è quello dell’uomo in mano al proprio destino e viene sviluppato seguendo due aspetti complementari. Da una parte il labirinto delle possibilità che si apre di fronte a ogni scelta, dall’altra l’interferenza, che può unire all’improvviso dimensioni estranee, distanti, innescando coincidenze imprevedibili, a volte fatali. La relazione mentale contenuta nella dichiarazione iniziale pertanto risulta doppia: un labirinto di possibilità può portare un colpo di piatti a rovinare la vita di una famiglia soltanto se, a causa di una interferenza, esso si è a sua volta smarcato, trasformandosi nel colpo di pistola di un omicidio.

Accanto al tema principale, Hitchcock svolge nel film alcuni motivi tipici della sua produzione cinematografica, quali la metamorfosi in personaggio eroico dell’uomo ordinario, indotta da una situazione eccezionale che egli si trova a fronteggiare, il male che si cela sotto le sembianze affabili di membri della buona società, l’incapacità delle forze dell’ordine nel risolvere i casi di crimine.

Vediamo adesso come interagiscono, nelle sequenze in cui appare Whatever will be, forma audiovisiva, rappresentazione tematica, relazione mentale.

La canzone compare per la prima volta nella sequenza della camera d’albergo a Marrakech (tabella 1). I coniugi Jo e Ben McKenna, con il figlio, il piccolo Hank, sono da poco arrivati in Marocco per trascorrere una vacanza. È sera, Jo e Ben hanno invitato a prendere un cocktail nella loro stanza Louis Bernard, in previsione di uscire con lui a cena. I McKenna hanno conosciuto Bernard sull’autobus che li accompagnava in città, in seguito a un disguido occorso a Hank con un uomo del luogo. Il francese, dimostrandosi esperto dei costumi locali e parlando arabo aveva in breve risolto la questione. Jo nutre dei sospetti su di lui dal momento che si è mostrato reticente nel rivelare la propria identità e poiché, all’arrivo dell’autobus, lo ha visto confabulare con l’uomo dell’incidente, come se tutto fosse stato architettato. Nella scena della camera d’albergo i sospetti della donna si infittiscono, per lo strano modo di comportarsi dell’ospite. Come apprenderemo nelle fasi successive del racconto, Bernard, che sarà assassinato di lì a poco, era l’agente segreto sulle tracce dell’organizzazione criminale che progetta l’uccisione del Primo Ministro.

 

Tabella 1

 

Whatever will be occupa, da elemento sonoro principale, le prime quattro inquadrature della sequenza, dalla dissolvenza che apre sull’interno della camera d’albergo, ai rintocchi sulla porta che interrompono Jo e Hank mentre cantano e ballano insieme. Hitchcock instaura tra suono e immagine un rapporto di fuori campo attivo. Esso si ha quando un suono off impone un’aspettativa sul campo visivo, incitando lo sguardo ad andare a vedere che cosa succede alla sorgente sonora. Nella sequenza, le voci cantanti, quella di Jo che intona il ritornello, poi, a catena, quella di Hank che esegue la prima strofa, sono inseguite dalla macchina da presa, che in successione rivela le due fonti.

La costruzione audiovisiva, come dimostra Murray Pomerance con un’analisi dettagliata dell’episodio, permette alla canzone di trascendere la propria natura e il proprio valore musicale, elevandosi a fulcro di significati[4].

. In termini deleuziani, il brano attiva una relazione mentale astratta, divenendo un simbolo delle dinamiche affettive tra i membri della famiglia McKenna. Per il suo tramite comprendiamo la forza del legame tra madre e figlio. Si pensi a come Jo e Hank, alternandosi con estrema precisione nell’intonazione delle sezioni, dialoghino in musica (inq. 2) o al perfetto affiatamento che esibiscono nel muovere assieme un passo di danza su quanto stanno cantando (inq. 4). Quando sentono il bambino cantare poi, entrambi i genitori si scambiano un sorriso compiaciuto, che manifesta tutta la loro soddisfazione per la sua precoce sensibilità (inqq. 2-3). Pomerance nota che anche il testo poetico della canzone, in sé di scarso spessore, assume rilievo se considerato in questa ottica. Hank canta delle strofe nostalgiche, che rimandano in prima persona a momenti dell’infanzia e dell’adolescenza ormai lontani: «When I was just a little boy […] / When I was just a child in school […] / When I grew up and fell in love […]». Si tratta di esperienze e sensazioni che, per la sua età, non può avere vissuto. Esse potrebbero semmai essere ricondotte alla storia personale di Jo, che evidentemente ha insegnato il brano al figlio. Ascoltandole cantate dal bambino, per di più fuori campo, ossia in assenza della sua figura, ci fanno percepire una sfasatura temporale. Sembra che la voce provenga dall’interiorità della madre, che rivive nel figlio le emozioni di un tempo, a testimonianza della profonda reciprocità che intrattiene con lui.

Sul fronte della rappresentazione tematica, la forma audiovisiva offre dei consistenti riferimenti ai due aspetti complementari del tema centrale del film, labirinto e interferenza. Le stanze separate da cui provengono le voci di Jo e Hank, congiuntamente al movimento della macchina da presa, che si muove alla loro ricerca imbattendosi di passaggio in molti altri elementi, rimandano all’idea del labirinto delle possibilità (inq. 2). Un labirinto acustico, come spiega ancora Pomerance è invece provocato dallo scarto temporale che si crea tra il passato degli avvenimenti raccontati nella canzone e l’anticipo che la canzone stessa gioca sull’immagine attraverso il fuori campo attivo. Si crea una sospensione del tempo, dominata da una sorta di doppia memoria. Una, lontana, è legata agli eventi evocati dal brano, l’altra, immediata, viene prodotta dal movimento della macchina da presa, che giunge a inquadrare la sorgente quando della voce, appena estinta, non è rimasto che il ricordo.

L’interferenza è richiamata dai rintocchi sulla porta che, interrompendo l’esecuzione di Whatever will be, spezzano l’incanto del sereno quadretto familiare. Ben apre la porta una prima volta e si trova di fronte il cameriere con la cena per Hank (inq. 5). Poco dopo però, quando ad aprire va Jo, i coniugi si trovano a contatto diretto, ignorandolo, con il sicario Rien. Considerata a posteriori, quando saranno ormai definite le identità e le intenzioni di ogni personaggio, la comparsa del criminale sulla porta della camera d’albergo appare come il segno ineluttabile del destino sventurato che sta per travolgere i McKenna (inq. 20).

Nel resto della sequenza (inqq. 5-31) la narrazione è meno densa di implicazioni ed è basata sullo sbilanciamento, caratteristico del cinema di Hitchcock, tra immagini e dialogo. L’unica tensione che possiamo cogliere dal parlato è quella tra Jo e Bernard, dovuta alle risposte evasive dell’agente che insospettiscono la donna. Sono le inquadrature, che ritraggono Bernard nell’ombra, spesso di spalle, in disparte ma vigile, a rendere in pieno l’idea del suo incombere sui McKenna e dell’alone di mistero che avvolge la sua figura. Così come spetta ancora all’immagine comunicare l’allarme procurato al francese dalla vista del sicario. La zoomata improvvisa sul volto di Rien, unita al codice iconografico cui risponde il volto dell’uomo, non ci fanno avere dubbi poi, sulla minaccia che egli rappresenta. Anche gli atteggiamenti dei due coniugi, la diffidenza di Jo, la tranquillità di Ben, sono espressi attraverso l’elemento visivo. Sulla domanda di Bernard, che riaccende i dubbi della donna (inq. 6), inizia la musica da buca di Herrmann, caratterizzata da una melodia orientaleggiante, poco direzionata, che rimarrà sospesa su tutta la scena. La musica ben si adatta ed esternare i sospetti di Jo e a rivestire il clima di incertezza che cala sull’episodio.

La canzone appare per la seconda volta nella sequenza dell’ambasciata, l’ultima scena d’azione del film (tabella 2). Sicuri che i rapitori trattengano Hank prigioniero nell’ambasciata, i McKenna vi si recano, sfruttando l’invito rivolto dal Primo Ministro a Jo, che gli ha salvato la vita all’Albert Hall. Jo chiede di poter cantare in omaggio agli invitati al ricevimento. In realtà la sua intenzione è quella di intonare a gran voce Whatever will be, in modo tale da farsi sentire da Hank, se si trova nell’edificio. Il bambino, rinchiuso sotto stretta sorveglianza ai piani superiori, non tarderà a riconoscere la voce della madre e a rispondere, fischiando il motivo che gli è familiare.

 

Tabella 2

 

Anche nella sequenza dell’ambasciata, la canzone esce dalla serie di pertinenza per avviare una relazione mentale. Essa non abbandona il valore di simbolo dei legami familiari, in particolare di sigillo della profonda affinità tra madre e figlio. La situazione disperata però le fa assumere, in modo preponderante, le caratteristiche della smarcatura. Il brano si trasforma nel più efficace strumento d’azione, sia per il prigioniero che per il suo liberatore.

Nella sequenza, Hitchcock non si fa sfuggire l’occasione per proporre un’ultima, incisiva figura audiovisiva di labirinto. Egli la crea per mezzo delle inquadrature di scale e corridoi del palazzo che vengono attraversati dalla voce Jo per raggiungere la stanza in cui è segregato il piccolo Hank (inqq. 12-17). Se di solito, in un costrutto audiovisivo, spetta al suono vettorializzare l’immagine, in questo caso ci troviamo di fronte a un’inversione, con la serie visiva che idealmente guida l’elemento sonoro verso la sua meta.

Intanto, il motivo dell’ineluttabilità del destino, terzo aspetto del tema centrale del film, appare ormai completamente sviluppato dal racconto, quando la canzone risuona per la seconda volta. Apparentemente contraddittorio rispetto agli altri due, esso si pone in realtà come loro coronamento: nel labirinto delle possibilità, il destino sceglie la via da far seguire e l’interferenza può essere una delle sue logiche. Nel semplice ritornello della canzone, suggerisce acutamente Pomerance, è contenuta una chiave interpretativa di tale aspetto[5]. Se nella camera d’albergo di Marrakech «Que sera, sera» sembrava dire che non si può sapere in anticipo ciò che deve succedere, finché non sarà successo, nell’esecuzione all’ambasciata, alla luce degli avvenimenti del film, «Que sera sera», letto senza la virgola, ci ammonisce sull’ineluttabilità del destino, che farà sicuramente accadere ciò che vuole che accada.

 

Scheda del film

 

ALFRED HITCHCOCK, The Man Who Knew Too Much (L’uomo che sapeva troppo, Filwite Productions, 1955 (Universal Studios, 2001), 120 min.

 

Regia: A. Hitchcock; soggetto: da un racconto di Charles Bennet e D.B. Wyndham-Lewis; sceneggiatura: John Michael Hayes e Angus McPhail; fotografia: (Technicolor Vistavision) Robert Burks; effetti speciali: John P. Fulton; scenografia: Hal Pereira, Henry Bumstead, Sam Comer, Arthur Krams; musica: Bernard Herrmann; canzoni: Whatever will be e We’ll love again di Jay Livingston e Ray Evans; Storm Clouds Cantata di Arthur Benjamin su testo di D.B. Wyndham Lewis (esecuzione: London Symphony Orchestra, direttore: Bernard Herrmann); montaggio: George Tomasini; aiuto regia: Howard Joslin; interpreti principali: James Stewart (dottor Ben McKenna), Doris Day (Jo, sua moglie), Cristopher Olsen (Hank McKennna), Daniel Gélin (Louis Bernard), Brenda de Branzie (signora Drayton), Bernard Miles (suo marito), Ralph Truman (l’ispettore Buchanan), Mogens Wieth (il Primo Ministro), Reggie Nalder (Rien, l’assassino).

 

Altra filmografia consultata

 

ALFRED HITCHCOCK, The Man Who Knew Too Much (L’uomo che sapeva troppo), Gran Bretagna, Gaumont British Picture Corporation, 1934, 76 min.

 

Bibliografia

 

ROYAL S. BROWN, Overtones and Undertones, Berkeley, University of California Press, 1994;

MICHEL CHION, L’audiovisione. Suono e Immagine nel cinema, Torino, Lindau, 20012;

—————, La musique au cinéma, Paris, Éditions Fayard, 1995;

NICHOLAS COOK, Analysing Musical Multimedia, Oxford, Clarendon Press, 1998;

GILLES DELEUZE, Cinema 1 – L’immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1984;

MURRAY POMERANCE, «The Future’s Not Ours to See»: Song, Singer, Labyrinth in Hitchcock’s «The Man Who Knew Too Much», in Soundtrack Available: Essays on Film and Popular Music, ed. by Pamela Robertson Wojcik and Arthur Knigth, Durham, Duke University Press, 2001, pp. 53-73;

—————, Why Hides the Sun in Shame? Ambrose Chapel and «The Man Who Knew Too Much», «The MacGuffin», Summer 2005, consultato on-line all’indirizzo: www.ryerson.ca/mgroup/murray.html (giugno 2008);

FRANÇOIS TRUFFAUT, Il cinema secondo Hitchcock, Milano, Net, 2002;

ELISABETH WEIS, The Silent Scream - Alfred Hitchcock’s Soundtrack, Rutherford, Fairleigh, Dickinson University Press, 1982.

 

 

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[Bio] Matteo Giuggioli si è laureato in Lettere Moderne presso l’Università di Pisa e attualmente è dottorando in Musicologia e Scienze filologiche presso l’Università di Pavia-Cremona. La sua attività di ricerca si rivolge principalmente alla figura e all’opera di Luigi Boccherini e ai più recenti approcci analitici alla musica strumentale della seconda metà del XVIII secolo.

E-mail: matteogiuggioli@libero.it

Matteo Giuggioli graduated in Modern Literature at the University of Pisa and currently is attending the doctorate in Musicology and Philological Sciences at the University of Pavia-Cremona. He specializes in the figure and works of Luigi Boccherini and in the most recent analytical approaches to the instrumental music of the second half of the 18th-century.

[1] Tutte le affermazioni di Hitchcock sono riprese da FRANÇOIS TRUFFAUT, Il cinema secondo Hitchcock, Milano, Net, 2002.

[2] Per i concetti di valore aggiunto, musica ‘da buca’, musica da schermo, fuori campo attivo, cfr. MICHEL CHION, L’audiovisione. Suono e Immagine nel cinema, Torino, Lindau, 20012.

[3] GILLES DELEUZE, Cinema 1 – L’immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1984, p. 228.

[4] MURRAY POMERANCE, «The Future’s Not Ours to See»: Song, Singer, Labyrinth in Hitchcock’s «The Man Who Knew Too Much», in Soundtrack Available: Essays on Film and Popular Music, ed. by Pamela Robertson Wojcik and Arthur Knigth, Durham, Duke University Press, 2001, pp. 53-73: 56-68.

[5]  Ibid., p. 70.

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