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Contributo di Federica Rovelli

 

Audiovisione e screen-musical. «The Wizard of Oz» (1939)

 

 

Abstract

 

Making the children’s novel The Wonderful Wizard of Oz by Frank Baum (1900) into a movie is strongly rooted in the history of the screen-musical, a movie type that was born with the advent of sound, and goes along with the complex history of the novel’s spreading. The film was shot in 1939 by Victor Fleming for Metro-Goldwyn-Mayer (music by H. Stothart and H. Arlen). It shows very experimental features that have had repercussions even on an audiovisual level. The ternary macro structure (A – B – A’), as already shown by Bordwell and Thompson in 2003, is the same which was used to rule the synaesthetic relationship between sound and image. In that sense section A is close to the traditional film language of those years. Section B instead is nearer to the language of musical. In this same section the conventions of the screen-musical which basically until then was a backstage musical are yet turned over. The non-realistic characteristic of dancing and singing had always been considered a lack of the musical itself, but in The Wonderful Wizard of Oz these features were eventually used to create a dreamlike atmosphere as part of a fantasy plot. The open declaration of anti realistic intentions by using a fantastic plot becomes an alternative to the creation of a motive, so typical of the backstage musical, as well as an insight into the genre of musical itself, and into the different mechanisms of re-enacting reality with its most congenial language.

 

La realizzazione cinematografica del romanzo per bambini The Wonderful Wizard of Oz, scritto da Frank Baum nel 1900, affonda le sue radici nella storia dello screen-musical, genere cinematografico nato in concomitanza dell’avvento del sonoro, e nella complessa storia della diffusione dello stesso testo letterario. Il testo filmico realizzato nel 1939 dal regista Victor Fleming per la Metro-Goldwyn-Mayer (musiche di H. Stothart e H. Arlen), infatti, presenta delle caratteristiche fortemente sperimentali che si ripercuotono anche sul piano audiovisivo. Una macrostruttura di tipo ternario (A – B – A’), già individuata da Bordwell e Thompson nel 2003, regola perfettamente anche il rapporto sinestesico esistente tra immagine e suono; in tal senso, se la sezione A si avvicina di più al linguaggio cinematografico tradizionale, è nella sezione B che si può parlare di vero e proprio musical. Sempre all’interno della sezione B vengono anche ribaltate le convenzioni dello screen-musical, fino a quel momento sostanzialmente backstage musical. L’antirealismo proprio dei numeri ballati e cantati, considerato fino ad allora un limite del genere, viene sfruttato infatti per creare l’atmosfera onirica propria della porzione fantastica della trama. Dichiarare apertamente intenti antirealistici attraverso l’impiego di trame fantastiche diviene così non solo un’alternativa alla creazione del ‘movente’, tipica del backstage musical, ma anche una sorta di auto-riflessione sul musical stesso, sui differenti meccanismi di riproduzione della realtà e i linguaggi ad essi più congeniali.

 

 

Abbreviazioni

 

***

 

«Quando il film iniziò a parlare lo fece cantando». Con queste parole Rick Altman descrisse il legame sussistente tra la nascita del musical cinematografico, più esattamente screen-musical, e l’introduzione del sonoro nel cinema. Tale legame, apparentemente ovvio per ragioni tecniche, è probabilmente più profondo di quanto non si possa sospettare in un primo momento. Se infatti sono ovvie le motivazioni per cui lo screen-musical non poté che nascere proprio in concomitanza dell’avvento del sonoro, non è altrettanto scontato il motivo per cui i primi prodotti cinematografici, potenziati dalla nuova dimensione audio, vennero immediatamente forgiati prendendo a prestito un modello teatrale, quello dello stage-musical, piuttosto che un modello cinematografico preesistente. La predilezione per questo genere, considerando anche le difficoltà tecniche che la registrazione del suono comportò inizialmente, doveva possedere radici molto profonde se proprio la prima pellicola con sonoro, The Jazz Singer, prodotta dalla Warner Bros nel 1927, fu un musical. Come si può facilmente intuire, fin da principio i rapporti tra i vecchi stage e i nuovi screen-musicals furono molto intensi; il caso più frequente vedeva soggetti teatrali di successo riproposti sullo schermo, in casi estremi il prodotto cinematografico poteva essere ottenuto addirittura attraverso una ripresa diretta di quello teatrale, nella medesima maniera in cui oggi vengono riprese opere, concerti e balletti. Sulle ragioni e le modalità del progressivo differenziamento dei due filoni, il cui grado di parentela oscilla secondo Graham Wood tra quello di ‘fratelli gemelli’ e quello di ‘cugini alla lontana’, ancora poco è stato detto; in maniera piuttosto sommaria sarà tuttavia utile ricordare che, alla caratteristica struttura narrativa interpolata da numeri coreutico-musicali già tipica dello stage-musical, lo screen-musical aggiunge delle proprie specificazioni probabilmente funzionali all’impiego del nuovo medium.

La lettura sociologica fornita da Altman ricollega alcune caratteristiche peculiari del genere cinematografico alla contingenza storica in cui esso vide la luce. Trame estremamente semplici, destinate a mettere in campo due mondi costantemente in contrapposizione dicotomica, diventano il motore centrale dell’azione; spesso a rappresentare questi due mondi sono due personaggi, maschile l’uno e femminile l’altro, esponenti di due classi sociali distinte: la soluzione dell’intreccio proviene ovviamente dal superamento del contrasto, dalla ricongiunzione dei due opposti. Tale struttura estremamente stilizzata, spesso giustificata dal ruolo di puro intrattenimento attribuito al nuovo genere, possiede tuttavia una peculiarità: quella di consentire l’alterazione della più consueta scansione spazio-temporale, che vorrebbe la rappresentazione degli eventi rispettosa della loro reale successione diacronica, in favore di una messa in scena sincronica, capace di porre in parallelo due situazioni – in forma di numeri musicali – vissute dai due protagonisti in momenti e luoghi differenti. Vi è infine un problema tutto ‘drammaturgico’ che, specie nello screen-musical, sembra calamitare le attenzioni di sceneggiatori e registi: il cinema, infatti, come arte che fin da principio si interroga sulla possibilità di rappresentare la realtà in maniera sempre più verosimile, ha qualche difficoltà a metabolizzare come momenti della vita quotidiana i caratteristici numeri ballati e cantati; ecco perché fin dai suoi esordi – The Jazz Singer fornisce ancora una volta un esempio illuminante – il musical è innanzitutto backstage musical: costruito cioè su trame inerenti vite di artisti, allestimenti di spettacoli, concerti e, più in generale, su soggetti ‘moventi’ capaci di giustificare la presenza di simili ‘corpi estranei’; in tal modo, dunque, anche i numeri musicali trovano un loro ‘diritto di cittadinanza’ all’interno del linguaggio cinematografico.

The Wizard of Oz è considerato da sempre una pietra miliare della produzione hollywoodiana degli anni Trenta; tutt’oggi schiere di ammiratori e collezionisti di tutte le fasce d’età si raccolgono attorno a questo vero e proprio oggetto di culto su appositi siti internet, in occasione di aste e per la celebrazioni degli anniversari più importanti. Frank Baum, creatore del testo letterario fonte della produzione cinematografica in esame, fu sicuramente un personaggio estremamente eclettico. Grazie al benessere economico della famiglia d’origine, egli poté sperimentare fin da giovane vari aspetti della propria creatività: giornalista, attore, direttore della compagnia teatrale di famiglia fino a divenire, negli ultimi anni della sua vita, fondatore di una delle prime case cinematografiche di Hollywood. La sua biografia, costellata di trionfi e fallimenti continui, subì una brusca sterzata proprio in occasione della pubblicazione, nel 1900, del romanzo per bambini The Wonderful Wizard of Oz, con illustrazioni di William Wallace Denslow. Sulla scia dell’enorme successo riscosso dal romanzo, Baum pubblicò, negli anni successivi, altri tredici racconti ambientati nel Paese di Oz. La prosecuzione dell’epopea di Dorothy, tuttavia, non è l’unico aspetto degno d’interesse all’interno della storia della diffusione di questo testo: nel 1902, infatti, Baum e Denslow si unirono al compositore Paul Tietjens e al direttore d’orchestra Julian Mitchell per realizzare ciò che lo scrittore aveva da sempre desiderato per il suo romanzo: una messa in scena teatrale. Il testo, dunque, arrangiato in forma di ‘stravaganza musicale’ per adulti, fu rappresentato a Broadway ben 239 volte e successivamente portato in tournée per tutti gli Stati Uniti. Non ancora soddisfatto del risultato ottenuto, tuttavia, Baum si cimentò in una nuova impresa che, alla lunga, si rivelò foriera dell’ennesima catastrofe economica: la produzione, nel 1908, di un’altra versione teatrale di The Wonderful Wizard of Oz. In questo nuovo genere di rappresentazione, intitolato Fairylogues and Radio Plays, vennero combinate proiezioni di diapositive e di sequenze filmate, recitazione da parte di attori in carne ed ossa sul palco e letture, tratte da un diario di viaggi nel Paese di Oz, effettuate dallo scrittore in persona: un vero e proprio esperimento multimediale. Stabilitosi a Hollywood nel 1914, e fondata la Oz Film Manufacturing Company, Baum si dedicò, infine, alla produzione di una serie di pellicole mute ancora una volta incentrate sulla saga di Oz.

La produzione cinematografica del The Wizard of Oz del 1939 (musiche di H. Stothart e H. Arlen) rappresentò dunque lo sbocco naturale per un genere di testo che, fin da principio, doveva essere stato concepito come qualcosa di più di un semplice romanzo per bambini. La Metro-Goldwyn-Mayer scelse di sfruttarne la notorietà per contrastare il recente successo disneyano di Snow White e, decisa a impiegare ogni strategia per la creazione di un ‘evento storico’, lavorò a lungo non solo per la formazione del cast, ma persino per la scelta dei tecnici, per la preparazione dei costumi e per la realizzazione degli effetti speciali. Lo stesso regista, Victor Fleming, consapevole dell’operazione commerciale in atto, pur essendo impegnato sul set di un’altra pellicola che si sarebbe presto rivelata di importanza epocale (Gone with the Wind), decise di non abbandonare mai del tutto il suo incarico per The Wizard of Oz. Il successo fu strepitoso e valse a Judy Garland, alias Dorothy, l’oscar per la celeberrima Over the Rainbow della quale, ironia della sorte, era stata inizialmente prevista la soppressione.

Per la sceneggiatura venne ripresa piuttosto fedelmente la trama del primo romanzo di Baum, l’unico della saga concepito come unità a sé stante; alcune piccole modifiche, tuttavia, portano il segno inconfondibile di una strategia atta a veicolare il significato del testo di partenza in una nuova direzione. L’indizio decisivo che ci consente di individuare tale nuova direzione è posto all’inizio della scena finale del film: quando Dorothy si risveglia in Kansas, infatti, non è immediatamente chiaro se la protagonista abbia compiuto realmente il viaggio narrato. Nessun dettaglio, nessun personaggio spiega fino in fondo se Dorothy sia stata ritrovata e portata nel letto in cui si trova, o se sia sempre rimasta nella sua camera e il viaggio si sia svolto solo nella sua immaginazione. Tuttavia, una serie di dati disseminati in tutto il film ci spinge in qualche modo a dedurre che la bambina è sempre rimasta in Kansas, il suo viaggio è stato, casomai, un viaggio nell’aldilà, un ‘viaggio sciamanico’, se così può essere definito, da cui fortunatamente è riuscita a fare ritorno. E in fondo, unicamente questo senso di morte scampata può spiegare perché, alla fine del film, lo spettatore si trovi a simpatizzare almeno per una volta con l’assurdo desiderio della protagonista di tornare a casa: il Regno di Oz è un posto meraviglioso, nessuno preferirebbe tornare in Kansas! Ebbene, questo scioglimento finale, che ci conduce retrospettivamente alla comprensione dell’intera trama, è caratteristica esclusiva del testo filmico. Nel romanzo di Baum, infatti, l’ultima ‘scena’ (capitolo 24) è più semplicemente costituita dal vero e proprio ritorno di Dorothy alla fattoria degli zii:

Aunt Em had just come out of the house to water the cabbages when she looked up and saw Dorothy running toward her. «My darling child!» she cried, folding the little girl in her arms and covering her face with kisses; «where in the world did you come from?» «From the Land of Oz», said Dorothy gravely. «And here is Toto, too. And oh, Aunt Em! I’m so glad to be at home again!».

 

Anche l’aggiunta del personaggio di Miss Gulch, inesistente nel romanzo, svolgerà un ruolo importantissimo nella strutturazione del testo filmico. A tale proposito è forse interessante riproporre, con qualche piccola aggiunta, la lettura macroformale proposta da Bordwell e Thompson: l’intero testo, infatti, può essere paragonato ad una grande forma ternaria (ABA’) tra le cui sezioni sussistono non solo elementi di contrasto, ma anche fattori determinanti continuità. La tripartizione risulta particolarmente evidente in relazione ai luoghi di svolgimento dell’azione (Kansas – Oz – Kansas), al colore delle pellicole impiegate (bianco e nero – Technicolor – bianco e nero) e alla differenziazione del clima gestuale che, fatta un’ovvia eccezione per la protagonista, consente a tutti i personaggi fantastici presenti nella sezione B, di impiegare una mimica simile a quella del muto. Il personaggio di Miss Gulch svolge all’interno di questa tripartizione un ruolo importantissimo; essa infatti, impersonata dalla stessa Margaret Hamilton che vestirà i panni della malvagia Strega dell’Ovest, rappresenta un fortissimo elemento di continuità tra la sezione A e la sezione B, costituendone, in definitiva, l’esplicito anello di congiunzione (cfr. sequenza n. 4). Il progetto registico prevede l’esistenza di altri ‘personaggi paralleli’: è il caso dei tre garzoni delle scene iniziali, impersonati dai medesimi attori che andranno nella sezione B a vestire i panni dei tre compagni di viaggio di Dorothy, e del Professor Marvel il cui interprete (Frank Morgan) andrà a ricoprire altri due ruoli della sezione B (il Guardasigilli e il Mago). Tutti questi personaggi, così come quello di Miss Gulch, consentono di individuare ulteriori elementi di continuità tra le differenti sezioni del film, ma solo Miss Gulch, alias Strega dell’Ovest, possiede uno specifico tema musicale, collocato a livello extra-diegetico, che viene ripresentato a ogni sua apparizione tanto nella sezione A quanto nella sezione B.

Non ascrivibile alla categoria dei backstage musical non solo a causa della natura del soggetto trattato, The Wizard of Oz presenta delle peculiarità inerenti le componenti testuali più specificamente audiovisive. Per approfondirne gli aspetti di maggior interesse consideriamo, a questo punto, alcune sequenze del film.

 

Tabella 1

 

La sequenza in questione è probabilmente una delle più importanti della sezione A e condensa, in un certo senso, il contenuto dell’intero testo filmico. Dorothy si decide a scappare di casa per mettere in salvo il suo cagnolino Toto e, dopo un breve tratto di strada, incontra il Professor Marvel. L’incontro, preludio al viaggio nel regno di Oz, crea un’immediata connessione tra il sogno descritto da Dorothy nel suo primo numero musicale (Over the Rainbow) e il mondo della magia: nel momento esatto in cui l’insegna del Professor Marvel viene inquadrata il tema strumentale di Over the Rainbow viene infatti riproposto per la prima volta nel campo dei suoni che abbiamo definito over (extra-diegetico). Una melodia orientaleggiante eseguita dell’oboe (a) si sovrappone ad esso con l’ingresso in scena del Professor Marvel come a sottolineare tale connessione e a suggerire la presenza di un’atmosfera misteriosa. Medesimo valore descrittivo possiede la melodia successivamente affidata agli archi (b) in concomitanza delle inquadrature 14-22: è infatti in questo momento che il Professore convince Dorothy a tornare a casa facendole credere che zia Em è in pena per la sua scomparsa. Ancora una volta, dunque, al fattore sonoro-musicale viene attribuita una funzione suggeritiva, atta a caricare la scena di un valore emotivo aggiunto.

 

Tabella 2

 

Le due sequenze in questione coincidono con la transizione tra quelle che abbiamo precedentemente definito come sezioni A e B. Oltre alla suggestiva messa in scena del ciclone, ottenuta con effetti speciali avanguardistici per i tempi, è sicuramente interessante notare come il sonoro si sposti, fin dall’ingresso della protagonista nel Regno di Oz (B), nel campo over. La sua totale concentrazione in uno solo dei campi individuati, e in particolare nel campo dei suoni over, non è determinante solo in relazione alla sua stessa localizzazione, ma soprattutto in riferimento alla sua qualità. In un certo senso, infatti, l’immediata e brusca assenza di sonoro nei campi in e off esclude l’impiego di suoni-rumori collegabili allo svolgimento delle azioni. L’uso pervasivo di materiale musicale, parziale conseguenza dello slittamento appena esaminato, crea in secondo luogo una frattura netta con la sequenza immediatamente precedente e ci catapulta in un clima sonoro molto più vicino a quello del musical ‘tradizionale’, di tipo backstage – è bene ricordare che per tutta la prima parte della pellicola l’unico episodio isolato, con sembianze di numero da musical, è proprio Over the Rainbow.

 

Tabella 3

 

Entrati nel vivo della sezione centrale del film, quasi ogni elemento sonoro è ormai impiegato in funzione dei numeri chiusi. Essi, infatti, scandiscono l’intera sezione B costituendo l’ossatura della narrazione. Come emerge dall’esempio proposto, inerente l’incontro tra Dorothy e il primo dei suoi compagni di viaggio, tutto il materiale musicale impiegato nel campo over possiede la precisa funzione di creare un collegamento tra i numeri musicali posti a livello diegetico (campo in). La connessione agevola dunque il passaggio dal precedente Follow the yellow brick roads We’re off to see the Wizard al successivo If I only had a Brain con circa tre minuti (32:20-35:04) di frammenti melodici tratti tanto da un numero quanto dall’altro. Il tema principale di If I only had a Brain diventa più chiaro e completo man mano che il duetto in questione si avvicina. In questa sequenza, come nella maggior parte delle sequenze della sezione B, quindi, il ‘valore aggiunto’ del suono, così come definito da Chion e come emerso nell’analisi della sequenza n. 3 dello stesso film, è in qualche modo ridotto e occultato dallo sforzo di rendere fluido il passaggio tra i differenti numeri musicali. Solo nelle inquadrature comprese tra la 32 e la 43, in concomitanza delle cadute dello Spaventapasseri, i tremoli degli archi e le rapide scale degli ottoni si pongono a commento delle azioni cinematografiche e interrompono bruscamente ciò che in un primo momento poteva sembrare il vero e proprio inizio del numero. Tale frammentazione del materiale melodico, tuttavia, risponde ad un’altra esigenza già da tempo espressa e soddisfatta dallo screen-musical: quella di rendere più naturale possibile il passaggio dalle sezioni parlate a quelle cantate.

 

Concludendo, già a partire dagli esempi portati pare chiaro in primo luogo che il rapporto sinestesico esistente tra immagine e suono in The Wizard of Oz può in qualche modo essere ricondotto alla medesima legge macro-formale rintracciata da Bordwell e Thompson per gli altri parametri. La differente tecnica impiegata per strutturare tale rapporto nelle varie sezioni consentirebbe, infatti, di parlare di musical in senso stretto esclusivamente per la parte centrale; tale differenziazione inoltre sarebbe risultata ancora più evidente se Over the Rainbow fosse stata tagliata come previsto inizialmente e le due sezioni estreme, A e A’, fossero state di conseguenza prive di numeri musicali. Da un altro lato, può essere di qualche interesse osservare che la caratteristica che poteva essere stata considerata un limite del musical, ovvero l’antirealismo proprio dei numeri ballati e cantati, viene sfruttata in questo modo per creare un’atmosfera onirica difficilmente ottenibile diversamente. Dichiarare apertamente intenti antirealistici attraverso l’impiego di trame fantastiche diviene così non solo un’alternativa alla creazione del ‘movente’, tipica del backstage musical, ma anche una sorta di autoriflessione sul musical stesso, sui differenti meccanismi di riproduzione della realtà e i linguaggi ad essi più congeniali.

 

Scheda del film

 

VICTOR FLEMING, The Wizard of Oz, Metro-Goldwyn-Meier, 1939, 112 min.

 

Metro-Goldwyn-Meier Production – Diretto da Victor Fleming – Adattamento dal romanzo di Baum di Noel Langley, Florence Ryerson, Edgar Allan Woolf – Adattamenti musicali di Herbert Stothart, arrangiamenti orchestrali e vocali di George Bassman, Murray Cutter, Paul Marquardt, Ken Darby, testi musicati di E. Y. Harburg, musiche di Harold Arlen, direttore George Stoll, numeri musicali di Bobby Connolly – Costumi: Adrian – Montaggio: Blanche Sewell – Scenografie: Edwin B. Willis – Fotografia in Technicolor di Harold Rosson, Allen Davey, Natalie Kalmus, Henri Jaffa – Effetti speciali: Arnold Gillespie – Prodotto da: Mervyn LeRoy – Interpreti principali: Judy Garland, Frank Morgan, Ray Bolger, Bert Lahr, Jack Haley, Billie Burke, Margaret Hamilton, Charley Grapewin.

 

Bibliografia

 

RICK ALTMAN, The American Film Musical, Bloomington-Indianapolis, Indiana University Press, 1987;

—————, Film sonori / Cinema muto. Ovvero come Hollywood imparò a parlare e a tacere, «Cinegrafie», III/6, 1993, pp. 9-19;

LYMAN FRANK BAUM, Il mago di Oz, a cura di Alide Cagidemetrio, trad. it. con testo a fronte di Sara M. Sollors, Venezia, Marsilio, 2004;

DAVID BORDWELL-KRISTIN THOMPSON, Cinema come arte: teoria e prassi del film, Milano, Il Castoro, 2003;

FRANCESCO CASETTI – FEDERICO DI CHIO, Analisi del film, Milano, Bompiani, 19913;

MICHEL CHION, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Torino, Lindau, 20012;

NICHOLAS COOK, Analysing Musical Multimedia, Oxford, Clarendon Press, 1998;

HUGH FORDIN, The World of Entertainment. Hollywood’s Greatest Musicals, Garden City, Doubleday, 1975;

ALJEAN HARMETZ, The Making of the Wizard of Oz, New York, Hyperion, 1998;

Musical: das unterhaltende Genre, hrsg. von Armin Geraths und Christian M. Schmidt, Laaber, Laaber Verlag, 2002 (Handbuch der Musik im 20. Jahrhundert, 6);

MICHAEL O’NEAL RILEY, Oz and Beyond. The Fantasy World of L. Frank Baum, Lawrence, University Press of Kansas, 1997;

GRAHAM WOOD, Distant cousin or fraternal twin? Analytical approaches to the film musical, in The Cambridge Companion to the Musical, ed. by William A. Everett and Paul R. Laird, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp. 212-230;

ALAIN POIRIER, Le funzioni della musica nel cinema, in Enciclopedia della musica, diretta da Jean-Jacques Nattiez, vol. 1 (Il Novecento), Torino, Einaudi, 2001, pp. 622-648.

 

Sitografia

(luglio 2008)

 

Sito interamente dedicato a L. Frank Baum: http://greatsfandf.com/AUTHORS/LFrankBaum.php

Oz on screen, pagina dedicata ai rifacimenti televisivi e cinematografici del romanzo di Baum: http://www.kiddiematinee.com/ozfilms.html

Oz Central: sito dedicato ad amatori e collezionisti, ma con aggiornamenti costanti sulle novità bibliografiche: http://www.oz-central.com/index.html

Wendy’s Wizard of Oz: sito dedicato ad amatori e collezionisti contenente molti materiali fotografici e l’intera sceneggiatura del film: http://www.wendyswizardofoz.com/main.php

Links vari dedicati a The Wonderful Wizard of Oz Website: http://thewizardofoz.info/links.html#aboutbooks

 

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[Bio] Federica Rovelli è dottoranda presso la Facoltà di Musicologia di Cremona con un progetto sul rondò strumentale tra 1750 e 1830. Si è laureata con una tesi sulla genesi dell’op. 53 di Beethoven presso la medesima Facoltà, si è diplomata in pianoforte e perfezionata in pianoforte e musica da camera.

E-mail: frovell@yahoo.it

Federica Rovelli is taking her PhD degree at the Faculty of Musicology of Cremona on the instrumental rondo from 1750 to 1830. She obtained her university degree with a thesis on Beethoven’s op. 53 in the same Faculty. She obtained a diploma for piano and perfected herself as a chamber musician.

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