La caccia    di C. Rovati Indietro Indice Avanti

Le popolazioni nordiche, le cui abitudini alimentari erano legate esclusivamente al mare, praticavano la caccia alla balena già nel Neolitico, circa 6000 anni fa. Islandesi e Norvegesi, intorno all’anno 1000, adottavano il sistema dell’intrappolamento: spingevano l’animale nei fiordi, chiudevano con le reti e poi finivano la preda con le frecce. La balena franca, dai movimenti lenti, facilmente avvicinabile per la caratteristica di vivere in branco, in grado di galleggiare dopo essere stata uccisa, era fonte di grosse risorse alimentari, ma anche di ossa da cui ricavare armi, utensili e quant’altro. In Groenlandia infatti furono ritrovati i ruderi di un antico villaggio costruito con le ossa di balena. Pur attraverso documentazioni frammentarie, è certo che l’attività di caccia ai cetacei era conosciuta e praticata anche dai Fenici nel Mediterraneo, mentre sembra non rientrasse nelle abitudini dei Greci e dei Romani. Un considerevole sviluppo ebbe anche nel VII secolo nella Francia del Nord in seguito all’invasione normanna e alla costruzione di molti monasteri. La balena franca rappresentava per i monaci una vera e propria fonte di cibo, olio per le lampade, grasso per lubrificare.

L’industria baleniera, come attività organizzata a livello commerciale, fu avviata nel XII secolo dai Baschi che abitavano nel Golfo di Biscaglia dove le balene franche andavano a riprodursi. Furono loro ad utilizzare per primi una tecnica di caccia che verrà poi universalmente adottata. Quando da terra avvistavano la preda, con piccole imbarcazioni a remi si avvicinavano e lanciavano arpioni liberi sullo stesso animale. Rimorchiata a riva la balena veniva squartata ed ogni singolo pezzo lavorato, compresi i fanoni da cui si ricavavano stecche per corsetteria e rifiniture per l’arredamento.

L’intenso traffico commerciale dominato dai Baschi durò oltre tre secoli. Con la rarefazione delle balene franche nel Golfo di Biscaglia i Baschi si spinsero verso l’Atlantico nord orientale utilizzando navi adeguatamente attrezzate. Intorno alle coste del Labrador instaurarono intensi traffici commerciali con gli autoctoni e insegnarono, in particolare agli Eschimesi, l’arte della caccia. Nel 1600 i Baschi si diressero verso nuovi mari al largo della Groenlandia e della Finlandia inaugurando la caccia in mare aperto e inventando un procedimento per la lavorazione del grasso e della carne a bordo delle navi. Lasciarono definitivamente l’attività nel 1742 sia per le crisi politiche dei loro governisia per la concorrenza di Inghilterra e Olanda, che si imposero con le loro flotte raggiungendo alte vette nell’industria per la lavorazione delle balene. Tuttavia molti cacciatori baschi, per la loro abilità, erano richiesti su navi olandesi ed inglesi. A loro era riconosciuto il diritto di  uccidere l’animale. I cetacei erano nel frattempo diventati indispensabili per la vita di molte popolazioni fornendo loro, oltre al cibo, olio per l’illuminazione, per le pitture e i lubrificanti, ma anche sapone e tanti altri oggetti derivati dalla lavorazione delle ossa.

Già nel 1576 l’Inghilterra aveva ottenuto il monopolio per la cattura delle balene nel Mare del Nord e nel Mar Bianco, e nel 1786 con una flotta di 162 navi avviò la caccia alla balena franca e alla balena di Groenlandia nello stretto di Davis.

Gli Olandesi lungo le coste dello Spitzbergen costruirono veri e propri insediamenti per la caccia e la lavorazione dei grossi animali. Numerosi villaggi furono costruiti in zone anche inospitali e, sebbene venissero abbandonati durante il periodo morto della caccia, alcuni di questi vedevano ogni stagione l’arrivo di migliaia di persone (anche 180.000 nel villaggio di Smeeremberg). La tecnica di caccia messa a punto dagli Olandesi era estremamente pericolosa. Con un arpione collegato alla chiglia da una lunga sagola, sei uomini, a bordo di una piccola scialuppa, colpivano la balena che, ferita e dolorante, trascinava con sè l’imbarcazione; esausto l’animale veniva finito. Se il cetaceo si immergeva e la cima non veniva mollata il battello colava a picco. 

Trascinata a riva, la carcassa veniva squartata e il grasso, tagliato in lunghe strisce, fatto fondere in recipienti di mattoni. L’olio ottenuto veniva fatto decantare dentro a tini riempiti per metà di acqua e, dopo che le impurità si erano deposte sul fondo, veniva versato in grandi barili da stoccare nelle stive delle navi. Nel 1778 finì l’epoca gloriosa di caccia degli Olandesi i quali, in poco più di un secolo, avevano sacrificato circa 65.000 esemplari tra balene franche e balene di Groenlandia.

Nelle colonie inglesi d’America alla fine del XVII secolo la caccia alla balena divenne una vera e propria industria, ma la vera novità fu l’estensione della caccia anche al capodoglio. Nel 1712 infatti il capitano Christopher Hassey osò affrontare uno di questi cetacei, da sempre temuti per i loro forti denti e la loro natura di predatori. I capodogli divennero ben presto prede di un certo interesse perché se ne ricavava dell’olio molto più pregiato di quello di balena. Fornivano anche lo spermaceti, una sostanza grassa, liquida e biancastra, che si trova nella fronte e che solidifica a contatto con l’aria trasformandosi in un materiale ceroso utilizzato per fabbricare candele. Altro speciale prodotto dei capodogli è l’ambra grigia che si trova nel loro intestino. E’ una sostanza solida e grigiastra che deriva presumibilmente dalle ghiandole cutanee dei cefalopodi ingeriti e che trova ottimo impiego nella preparazione di preziosi profumi. 

L’attività americana dava lavoro a migliaia di marinai che imbarcati sulle baleniere solcavano mari ed oceani impegnati in lunghi e avventurosi viaggi. Impiegava anche molti uomini in attività collaterali (fabbriche di cordami, barili, arpioni ed attrezzature varie) collegate alla cattura e alla lavorazione dei cetacei, portando ricchezza e prestigio. Anche la scoperta del petrolio (1859) che ben presto sostituì l’olio di balena nell’illuminazione non fece cessare l’attività di caccia per la pressante richiesta di altri prodotti derivati. Con l’avanzamento delle tecnologie migliorò anche l’efficienza della caccia. I battelli a vela furono sostituiti da quelli a vapore e gli arpioni divennero sempre più micidiali. Nel 1864 fu infatti inventato dal norvegese Svend Foyn un cannone in grado di sparare fino a 50 metri di distanza un potente arpione esplosivo che toglieva ai cetacei ogni possibilità di scampo. Ciò permise l’estensione delle catture anche alle balenottere un tempo irraggiungibili perché molto veloci e irrecuperabili per la tendenza ad affondare una volta morte. Quest’ultimo problema fu risolto dallo stessa Foyn sparando aria compressa nel ventre della balenottera colpita. Con questa tecnica, mediante la sua baleniera a vapore l’inventore nel 1868 catturò, in una sola stagione, ben 30 balenottere azzurre.

Alla fine dell’800 anche Giappone e Russia si dedicarono ampiamente all’industria baleniera.

Nel XX secolo si fece palese il forte decremento delle popolazioni accompagnato dalla prosecuzione dello sterminio dovuto ancora una volta all’introduzione di nuove tecnologie quali il sonar utilizzato per la prima volta dai Giapponesi. Furono introdotte anche moderne navi-fattoria attrezzate per la lavorazione degli animali issati nella stiva mediante un piano inclinato all’imboccatura. Anche il mercato dei prodotti derivati dai cetacei registrò un nuovo impulso per l’aumentata richiesta di glicerina utilizzata per la fabbricazione di esplosivi in concomitanza dei due conflitti mondiali. 

Fra le due guerre venivano uccisi anche 50.000 esemplari all’anno tanto da indurre le autorità dei paesi interessati a tentare di porre un freno alla caccia indiscriminata.A partire dal 1927 furono create norme per la regolamentazione della caccia che si rivelarono di scarso successo perché troppo spesso disattese da molti dei paesi interessati. Solo nel 1946 per opera del Presidente degli Stati Uniti Truman fu organizzata una conferenza che portò alla creazione di un organo di controllo formato da 15 paesi coinvolti nell’industria baleniera. Ciò portò a dichiarare specie protette la balena grigia e la balena franca e a vietare l’uccisione di femmine gravide e cuccioli di tutte le specie. Tuttavia il rispetto delle norme restava sotto le autorità governative dei singoli paesi che spesso le ignoravano. Dopo gli anni ‘60 ancora all’insegna dello sterminio (nel ‘61 furono uccise quasi 75.000 balene), negli anni ‘70 e ‘80 andò sempre più diffondendosi una coscienza conservazionista dovuta anche alla nascita di organizzazioni non governative come Greenpeace che operano nel campo della sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Ciò ha portato alla firma di trattati internazionali che regolano il commercio dei prodotti derivati dall’industria baleniera e alla creazione di sempre un maggior numero di aree di protezione noti sotto il nome di “Santuari”.

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