Poiché Scienza e Magia erano, alle origini, praticamente indistinguibili, è difficile stabilire quanto di magico o rituale e quanto di terapeutico sia alla base della pratica della trapanazione nei tempi antichi.
Dopo la prima segnalazione nel 1849 (Samuel Morton, Cranea Americana), numerosi studiosi descrissero casi di crani sottoposti a trapanazione. Tra questi, l'ungherese Kovaces (1853, cranio di Vereb); l'americano Squier (1863-65, cranio di Cuzco -Peru-) e Paul Broca [vedi Biografia in I Grandi Maestri] (1876), noto antropologo francese e studioso del Neolitico in Francia.
Riferendosi alle trapanazioni effettuate su persona viva, Broca affermava, concordando con Horsley (1888), che gli interventi avrebbero trovato la loro ragion d'essere nell'intento di portare aiuto in caso di determinate malattie, che, cioè, fossero terapeutici.
Lucas-Championnière (1912), uno dei maggiori studiosi francesi del problema, riteneva che l'operazione avesse lo scopo di curare malattie che si supponeva aver sede nel capo oppure per rimuovere schegge ossee da frattura cranica, praticando una decompressione cerebrale. Sir Marc-Armand Ruffer (1859-1917), ritenuto l'inventore della Paleopatologia, reputava possibile che i popoli del Neolitico operassero lesioni traumatiche, ma anche che l'indicazione principale alla trapanazione dovesse essere, probabilmente, la cefalea, dal momento che molti crani non presentavano lesioni.
Lucas-Championnière ricordava anche la teoria, universalmente accettata, che la trapanazione fosse praticata dapprima e da tempo immemorabile sulle pecore, per curare la loro "andatura barcollante", e che solo successivamente questa pratica veterinaria venisse applicata all'uomo. In più. Russu e Bologa narrano come i pastori della Romania, sin dai tempi antichi, usassero la trapanazione per rimuovere la larva del Multiceps multiceps dal cranio delle loro pecore che mostravano una andatura barcollante. Potrebbe, quindi, darsi che i racconti dell'estrazione di un coleottero (Yugoslavia) o di un centopiedi (Tibet) dal cervello umano si siano basati su una simile esperienza sulle pecore.
Sempre a favore dell'ipotesi terapeutica della pratica della trapanazione depongono i riscontri del Neolitico sardo, dove i crani presentano perforazioni preferenzialmente nella parte destra, probabilmente perché maggiormente esposta ai traumi, non essendo protetta dello scudo durante i combattimenti. Alla stessa conclusione si è giunti esaminando crani peruviani e danesi (ma di epoca più antica); in questi casi, però, la maggior parte degli interventi fu effettuata a sinistra, nella regione temporo-parietale, regione che era probabilmente a maggior rischio di essere colpita dai nemici destrimani.
Secondo i più, infine, la trapanazione cranica avrebbe trovato una prima applicazione a scopo terapeutico, probabilmente in seguito all'osservazione che, nel trauma cranico, la presenza di una frattura, paradossalmente, migliorava la sopravvivenza, consentendo al cervello edematoso di espandersi o a raccolte ematiche di defluire spontaneamente. In tempi successivi il trattamento venne applicato anche ad altre patologie (cefalea, epilessia, tumori, etc.), in quanto rappresentate da sintomatologie simili a quelle del trauma.
Non meno convincenti sono state le argomentazioni addotte per spiegare la natura magica e rituale della trapanazione cranica, sempre su vivente. Un gruppo di Autori (Guiard, 1930; Forgue, 1938; Castiglioni, 1941) ritiene, infatti, che, ai tempi preistoria, diverse malattie endocraniche fossero imputate a spiriti diabolici e che il rimedio consistesse, quindi, nel permettere a costoro di uscire dalla scatola cranica dove erano rinchiusi. Il miglioramento causato, in molti casi, da queste operazioni, fece poi sì che gli antichi chirurghi persistessero con questo tipo di intervento.
E ancora. Il fatto che la pratica della trapanazione fosse particolarmente diffusa in determinate aree del globo (ad es., civiltà Pre-Inca ed Inca; regione di Seine-Oise-Marne in Francia) ma non in aree a queste vicine, spesso addirittura confinanti, può far pensare ad una sua pratica anche a scopo rituale.
Altro tipo di discorso per le trapanazioni effettuate su persona defunta.
In questo caso l'intervento era costituito dalla asportazione, dal cranio di un defunto già sottoposto a trapanazione in vita, di una rondella di osso, includendo anche un pezzetto del bordo riossificato del precedente intervento.
Queste rondelle, il più delle volte di forma circolare, pulite e forate, venivano portate, infilate ad una collana, come amuleti o talismani contro i demoni. Questa pratica è ancor'oggi in uso presso alcune tribù africane.
In genere la craniotomia era praticata a sinistra, in ragione del fatto che le lesioni, prevalentemente traumatiche, erano riportate in battaglia ed inferte da nemici di solito destrimani. Le lesioni (e la craniotomia relativa) riscontrate a destra nei reperti della Sardegna fanno pensare, invece, che quello fosse stato il lato meno difeso dallo scudo (che veniva imbracciato con la sinistra) [vedi anche più sopra].
Le ossa craniche maggiormente sottoposte a trapanazione sono state, in ordine, l'osso parietale, quello frontale, l'occipitale e, infine, il temporale. Stewart (1958) riporta, però, in una ampia casistica di 112 trapanazioni in Perù, il 48.2% di interventi sul lato sinistro, 29.5% sul destro, ma il 22.3% sulla linea mediana. Inoltre, 53.6% nell' area frontale, 33% parietale e solamente il 13.4% nell'area occipitale.
Per Lucas-Championnière, la sutura sagittale fu sempre accuratamente evitata, presupponendo, quindi, che gli antichi chirurghi avessero una qualche conoscenza anatomica della regione (evitare, cioè, il sottostante seno venoso), mentre altri ricercatori asseriscono che mai nessuna sutura fu coinvolta negli interventi. Tuttavia, nelle osservazioni di Steward in Perù è evidente che non vi fu rispetto né della sutura saggitale (22.3% di interventi), né della coronale né della lambdoidea.
Il maggior numero di reperti rinvenuti mostra una trapanazione singola. Tuttavia non mancano casi di crani con due, tre o anche cinque trapanazioni. Oakley e coll. (1959) descrivono ben sette aperture nel cranio di Cuzco!
Come anestetico, l'alcool pare abbia avuto la più ampia diffusione, con variazioni d'uso appropriate alle regioni: vino d'uva in genere; vino di palma per gli africani; grappa per le popolazioni balcaniche. Gi Egizi aggiungevano anche oppio, mentre gli Inca varie preparazioni della pianta di coca.
Lo strumentario degli più antichi chirurghi era costituito da pochi strumenti di pietra scheggiata (selce), di ossidiana o di osso. In tempi successivi, si cominciarono ad usare i metalli, il rame, il bronzo, il ferro.
Russu e Bologa (1961) descrivono una sega trovata in quella che fu l'ultima dimora di un "uomo della medicina" dell'epoca celtica (II secolo a. C.) in Romania. Lo strumento, che misura 11 cm. di lunghezza ed è forgiato in un unico pezzo di ferro, ha una lama a mezzaluna dalla cui metà si innesta uno stelo che termina con un manico diritto. La lama è molto sottile e dentellata verso la superficie di taglio, più inspessita verso la base. Questo sistema a cuneo impedisce di effettuare tagli più profondi di 5-7 mm.
Lo strumentario comprendeva, oltre a seghe e rasoi, anche punteruoli, scalpelli, raschietti e piccole leve o sonde.
Le tecniche chirurgiche di trapanazione proposte sono fondamentalmente quattro: 1) la raschiatura; 2) il solco; 3) la perforazione e taglio; 4) l'incisione a linee rettangolari intersecantisi.
Raschiatura
Solco
Perforazione e taglio
Incisione a linee rettangolari intersecantisi