Dalla nascita dell'Urbe (21 aprile 753 a.C.) fino al secondo secolo avanti Cristo, lo sviluppo della medicina presso i romani fu relativamente modesto.
Trattavasi di una medicina prevalentemente autoctona, in buona parte mutuata dagli Etruschi, in cui agli acendenti religiosi (presenza di una serie di divinità, ognuna protettrice di una parte del corpo o preposta a singoli aspetti, patologici e non, della vita fisiologica) si affiancano aspetti nettamente empirici (uso di erbe medicamentose, decotti, infusi, applicati secondo nozioni desunte dall'esperienza) ed anche magici. Questa medicina vide in
Catone il Censore (234 a.C. - 149 a.C.) il suo massimo esponente.
Il medico (
curator) era la persona in grado di prestare occasionalmente una sorta di servizio sanitario, in condizioni di straordinaria emergenza come ad esempio guerre o pestilenze. In realtà, era il "pater familias" (capo famiglia), la figura più autorevole di ciascun nucleo familiare, a presiedere alla tutela della salute di tutti i componenti del nucleo famigliare, dei dipendenti e del bestiame.
A partire dal III secolo a.C. Roma vede l'arrivo di molti medici greci, per lo più schiavi o liberti, dotati di scarsa abilità tecnica, e di conseguenza, poco considerati nella società romana. Tra essi si distinse
Arcagato, emigrato a Roma da Sparta nel 219 a.C. Racconta
Plinio il Vecchio nella sua opera
Naturalis Historia:
... Cassio Emina, uno delle nostre antiche autorità, narra che il primo medico che venne a Roma dal Peloponneso fu Arcagato figlio di Lisania, nell'anno del consolato di L. Emilio e M. Livio, 535 ab Urbe condita. Egli ottenne la cittadinanza romana e gli fu acquistata con soldi pubblici una bottega al crocevia di Acilia. Fu un chirurgo egregio, straordinariamente popolare al suo arrivo, ma ben presto si guadagnò il nomignolo di "carnefice" a causa da suo uso selvaggio dello scalpello6 e del cauterio, ed ingenerò avversione verso la professione sua e degli altri medici ... (Naturalis Historia, XXIX, 12-13) - [in latino]
Tuttavia, Arcagato inaugura la professione medica pubblica, esercitata in luoghi a metà strada tra ambulatori, farmacie e scuole, detti
tabernae7 o
tabernae medicinae, che ricordavano molto da vicino gli
jatreia dell'antica medicina greca.
Diverso tipo di medico fu
Asclepiade di Bitinia (I secolo a.C.), fondatore della
scuola metodica, il quale, benché accreditato come l'inventore della broncotomia (tracheotomia) per la cura della difterite, intervento comunque da lui mai eseguito (
Celio Aureliano, De morbo acuto, i.14, iii.4), preferì, in conformità alla teoria atomistica ed in spregio di quella umorale ippocratica, evitare i rimedi drastici della medicina dell'epoca (emetici, purganti, etc.) e la chirurgia. A lui si attribuisce il motto "
cito,
tuto,
jucunde", a significare che la malattia deve essere curata "in modo rapido, sicuro e gradevole".
L'epoca imperiale coincide con il momento di maggiore splendore della medicina a Roma. Essendo una scienza nuova per Roma, attirò molti tra i più famosi scrittori romani tra cui
Cicerone,
Marco Terenzio Varrone,
Lucrezio,
Plinio il Vecchio,
Gellio e
Seneca che, pur non essendo medici, se ne occuparono comunque in maniera abbastanza approfondita.
Il caustico Marziale così dipingeva la figura di Diaulo, uno dei chirurgi del tempo:
Diaulo era stato chirurgo: ora è un becchino. Cominciò ad essere medico nel modo che gli era possibile. (Epigrammi, I,30) - [in latino]
e ancora:
Poco tempo fa Diaulo era medico, ora becchino: quello che fa da becchino, lo faceva anche da medico. (Epigrammi, I,47) - [in latino]
Ma è anche l'epoca nella quale sorgono varie scuole mediche, latrici di insegnamenti spesso in aperta contraddizione tra loro; sotto l'influenza delle varie scuole, comincia a prendere forma un pensiero medico vero e proprio.
Alla
scuola metodica si contrappose la
scuola pneumatica, che rappresentò un ritorno ai principi ippocratici. Ne fu fondatore Ateneo di Attaleia (50 d.C.), famoso per i suoi studi sulla semeiotica e sul polso. La
scuola eclettica, come dice il suo nome, riunì esperienze delle due precedenti scuole con l'intento di promuovere l'unità della medicina, ed ebbe come massimi esponenti Agatino di Sparta (90 d.C.) ed Areteo di Cappadocia, noto per le sue descrizioni anatomiche e la esposizione di vari quadri patologici (diabete, diatesi celiaca, vertigine - come sintomo di malattia cerebrale-, accessi di malinconia e mania, etc.)
Ma senza dubbio la figura più importante della prima parte dell'epoca imperiale è rappresentata da un medico originario proprio di Roma,
Aulo Cornelio Celso (25 a.C. - 50 d.C.) [vedi Biografia in
I Grandi Maestri]
Fu considerato l'Ippocrate Romano e, per le sue conoscenze enciclopediche, il Cicerone della medicina. Fu medico, ma soprattutto chirurgo. Nelle sue opere [a noi sono rimasti solo gli otto tomi del
De Medicina, parte di una vasta opera enciclopedica,
De artibus, dedicata ai problemi anche dell'agricoltura, dell'arte militare, dell'oratoria, della giurisprudenza e della filosofia] trattò approfonditamente di patologia, di clinica, di igiene, ma soprattutto di chirurgia, alla quale sono dedicati due libri: il VII e l' VIII: da ricordare, tra l'altro, la legatura dei vasi nelle emorragie più imponenti, la sutura delle ferite profonde, la toracotomia, le ernie inguinali, ombelicali e scrotali, l'intervento per l'eliminazione dei calcoli vescicali, la tecnica delle operazioni di emorroidi e varici, la chirurgia plastica e ben 24 tipi procedure chirurgiche in oculistica. Ampio spazio è dato anche alla chirurgia odontoiatrica (
De Medicina, VII,12)
8.
Mentre il medico deve avere, come dote essenziale, l'esperienza, la figura del chirurgo ideale è chiaramente delineata nel proemio del VII libro del
De Medicina:
... Il chirurgo, invece, deve essere innanzitutto giovane o di età prossima alla giovinezza, con mano ferma e capace, mai tremante, ed abile sia con la mano destra che con la sinistra. Deve possedere vista acuta e lucida e spirito impavido; deve essere tanto pietoso da desiderare la guarigione del suo paziente, ma non da accelerare la sua opera o da tagliare meno del necessario, scosso dai suoi lamenti; egli deve, invece, fare ogni cosa come se i lamenti del paziente non gli causassero alcuna emozione. (De Medicina, VII, Proemium, 4) - [in latino]
Celso dimostra di aver letto Ippocrate (di cui è seguace) e di avere un'ottima conoscenza dell'anatomia, sicuramente dovuta alla conoscenza degli studi dei grandi
anatomici alessandrini, come dimostra la descrizione del cranio con le suture ed i punti di maggiore o minore resistenza [
De Medicina, VIII, 1] (già, però, sommariamente descritti anche da
Ippocrate).
Celso così descrive lo
strumentario in dotazione ai (neuro)chirurghi della Roma antica del I secolo d.C. nel Capitolo Terzo dell'VIII Libro del
De Medicina, che titola "
Quomodo os excidatur; et de modiolo, et terebra, ferramentis ad id paratis" [Come l'osso è tagliato, e sul modiolo e la terebra, ferri adatti a questo].
Vi sono due strumenti (trapani), scrive Celso, per incidere l'osso: se la parte lesa è di piccole dimensioni, si può utilizzare il "modiolus" (detto, dai greci,
χοινικίς9); altrimenti, la "terebra".
Il
modiolus è un ferro cilindrico, con un margine dentellato, fornito al suo centro di uno perno, a sua volta contornato da un cerchio interno. Della
terebra (simile ad un moderno drill) scrive:
... ci sono due specie di terebra; uno è simile a quello dal carpentiere; l'altro ha una forma più allungata, comincia con una punta acuminata, poi più su si allarga improvvisamente, per poi, per la restante parte, divenire ancora impercettibilmente ristretto. (De Medicina, VIII, 3, 1) - [in latino]
I due strumenti trovano impiego differente, in dipedendenza anche delle dimensioni delle lesiono da trattare:
[2] Se il difetto da curare è abbastanza limitato e il modiolo è in grado di contenerlo interamente, il modiolo è lo strumento di scelta. Inoltre, se l'osso manifesta carie10, il perno centrale dello strumento deve essere inserito nel foro; se è necrotico, deve essere creata, con l'angolo di un scalpello, una piccola cavità dove inserire il perno, in modo che, colà ancorato, possa restare fisso durante la rotazione. Di là è fatto ruotare come una terebra tramite una correggia. La pressione deve essere adeguata sia al forare che allo ruotare, dacché, se essa è troppo lieve, l'avanzamento del trapano sarà scarso; se troppo forte, sarà rallentato il movimento. [3] Ed è opportuno versare qualche goccia di olio o latte di rose per facilitare la rotazione. Attenzione a non esagerare, perchè ne risentirebbe il filo di taglio dello strumento. Quando un primo solco è stato tracciato, il perno centrale è rimosso, ed il modiolo lavora da solo. Allorché la limatura d'osso ci avverte che l'osso sottostante è sano, bisogna rimuovere il modiolo. Ma se il difetto é più ampio, é necessario utilizzare la terebra.
[4] Il foro deve essere fatto al limite tra osso malato e sano; quindi ne va fatto un secondo ed un terzo, e così via, fino a contornare, con questi fori, l'area da togliere. Anche in questo caso la limatura ci avverte quando l'osso sottostante è sano. A questo punto si inserisce uno scalpello tra un foro ed il suo contiguo, e si demolisce il ponticello osseo tra i due fori, creando in tal modo un anello simile a quello, più piccolo, creato dal modiolo. [5] Una volta eseguito il foro, in un modo o nell'altro, bisogna togliere, con lo stesso scalpello, l'osso a scaglie, finché non si raggiunge osso sano. La necrosi ossea difficilmente interessa l'osso a tutto spessore, mentre per la carie ciò è talvolta possibile, soprattutto quando è malato il cranio. Una prova di ciò può essere ottenuta grazie allo specillo, il quale, inserito in una cavità, se il fondo è solido, incontra resistenza e risulta umido, quando ritirato. [6] Se lo specillo trova strada libera, approfondendosi tra l'osso e la membrana, non incontra resistenza e torna su asciutto: non perchè non vi sia del pus dannoso, ma perchè questo è distribuito su una superficie più ampia. Se l'osso è malato in tutto il suo spessore, sia per una necrosi esposta dalla terebra, sia per una carie mostrata dallo specillo, generalmente l'uso del modiolo è fuori luogo, poiché quanto più profondo è il processo, tanto più ampia dev'essere l'apertura. [7] Quindi deve essere usata la terebra che ho indicato come seconda; e questa deve essere frequentemente immersa in acqua fredda, per evitare che si surriscaldi. Ma bisogna prestare particolare attenzione quando si è forato la metà di un osso costituito di un solo strato, o lo strato superiore di un osso costituito da due starti; nel primo caso è indice la stessa distanza perforata, nel secondo la comparsa di sangue. Pertanto da allora è necessario far lavorare la cinghia più lentamente e bloccare e trattenere più spesso la mano sinistra, così come valutare la profondità della perforazione, in modo da percepire il momento in cui l'osso è stato rotto completamente e non correre il rischio di ledere con la punta la membrana del cervello; quando questo accade si originano gravi infiammazioni con pericolo di morte.
[8] Quando sono stati fatti i fori, i setti intermedi debbono essere tagliati allo stesso modo ma con molta maggiore attenzione, per timore di ledere con l'angolo dello scalpello la suddetta membrana; finché l'apertura sia sufficiente da permettere l'inserimento di una protezione della membrana, che i Greci chiamano "meningophylaca"11. Essa consiste in una lamina di bronzo, lievemente concava, liscia all'esterno; essa è inserita in modo che la parte liscia sia prossima al cervello e sospinta innanzi gradualmente sotto la parte di osso che deve essere tagliato completamente dal scalpello, cosicché, se è colpito dall'angolo del scalpello, impedisce al medesimo di andare più oltre; [9] e così il chirurgo può picchiare lo scalpello con il mazzuolo con maggior vigore e con maggior sicurezza, finché l'osso, separato tutt'intorno, può essere tolto insieme alla lamina, senza un qualsiasi danno al cervello. Quando tutto l'osso è stato rimosso, i margini dell'apertura debbono essere regolati con la lima, e se polvere d'osso è caduta sulla membrana, deve essere tolta. Quando è stato rimosso il solo tavolato esterno, e lasciato l'interno, bisogna livellare non solo l'orifizio ma anche l'osso spugnoso, per modo che la pelle possa crescere successivamente su di esso senza danno; perché quando cresce su un osso irregolare, non vi è mai una valida guarigione, ma ciò causa dolore.
[10] Cosa fare quando il cervello è esposto, lo spiegherò quando arriverò alle fratture. Se parte del tavolato interno è stato preservato, dovranno essere applicati medicamenti non grassi, che risultano adatti per le ferite recenti, e sopra questi lana non purgata bagnata con olio e aceto. Col passare del tempo la carne cresce dall'osso e riempie il buco fatto dalla chirurgia. Anche se parte dell'osso è stata cauterizzata, essa si separa dalla parte sana, e tra l'osso morto ed il sano si formano granulazioni che permettono la separazione; e questa è una scaglia piccola e sottile, che i Greci chiamano "lepis" 12.
[11] È anche possibile che, come conseguenza di un trauma, l'osso, quantunque non sia né fissurato né fratturato, abbia la sua superficie intaccata od irruvidita; quando ciò accade, è sufficiente una raschiatura e una levigatura. Queste situazioni, benché capitino più frequentemente nel capo, sono possibili in tutte le ossa, cosicché le stesse procedure sono applicabili ovunque. Ma per ossa che risultino fratturate, fissurate, perforate o frantumate, è necessario da un lato un trattamento speciale, adatto a casi singoli, dall'altro misure generali, da applicarsi alla maggioranza dei casi; di questi comincerò a trattare, ed in primis del succitato cranio. (De Medicina, VIII, 3, 2-11) - [in latino]
Se Ippocrate aveva sconsigliato l'intervento chirurgico in caso di fratture craniche infossate, Celso, al contrario, lo propone come mezzo terapeutico, anche se limitatamente a situazioni particolari. Il suo metodo di intervenire nelle lesioni traumatiche craniche, descritto con precisione ed accuratezza nel suo
De Medicina, diventerà lo standard chirurgico fino al tardo Medio Evo. Rilevante anche l'esposizione del quadro sintomatologico e delle sue variazioni in rapporto all'evoluzione, favorevole o sfavorevole, della prognosi.
Descrivendo il comporamento del medico in caso di trauma cranico (De Medicina VIII, 4, 1-22 -
[in latino]), Celso afferma che è necessario, in primo luogo, che il medico raccolga una accurata anamnesi patologica prossima, con particolare riguardo ai sintomi manifestati dal paziente nell'immediatezza del trauma ed alle cause dello stesso.
Quindi dopo un colpo in testa per prima cosa dobbiamo ricercare se il paziente ha avuto vomito biliare, se la vista gli si è oscurata, se è diventato muto, se ha perso sangue dal naso o dall'orecchio, se è caduto a terra, se è giaciuto inanimato come se dormisse; e questi segni si manifestano non solo in presenza di frattura ossea; quando sono presenti, dobbiamo riconoscere che il trattamento è necessario ma rischioso. Se poi si aggiunge anche torpore, delirio, spasmo o paralisi, è verisimile che sia stata lacerata anche la membrana cerebrale; ciò riduce di molto la speranza. (De Medicina VIII, 4, 1) - [in latino]
Ma anche in assenza di questi sintomi, non vi è la certezza di assenza di frattura. Un aiuto può essere costituito dalla conoscenza dell'agente che ha provocato il trama e dalle sue modalità. Ma la soluzione migliore è quella dell'accertamento diretto mediante esplorazione. Introdotto nella ferita uno specillo: se incontrerà superfici ossee lisce e scorrerà, si potrà affermare che l'osso è intatto; se invece incontrerà una qualche asperità, purché in quell'area non vi sono suture, bisognerà dedurne che l'osso è fratturato.
La possibilità di scambiare una frattura/contusione per una normale sutura ossea e viceversa è notevole, anche perchè, come aveva già illustrato anche
Ippocrate, esistono differenze anatomiche tra cranio e cranio. Pertanto, Celso consiglia comunque sempre l'ispezione diretta dell'osso
Quindi, talvolta, quando il colpo è stato violento, benché lo specillo non dimostri nulla, ugualmente la miglior cosa è allargare l'area. E se anche fatto ciò nessuna fessura è visibile, bisogna applicare dell'inchiostro sull'osso, che poi va raspato con il cesello; una frattura trattiene l'inchiostro. (De Medicina VIII, 4, 6) - [in latino]
È interessante notare che Celso già riconosce la possibilità di un trauma da contraccolpo
Può anche accadere che il colpo sia stato applicato in una parte della testa e la frattura compaia in un'altra. Ne consegue che se un tale ha avuto una forte botta in testa, e ne sono conseguiti dei sintomi sfavorevoli, e non è stata trovata alcuna frattura là dove lo scalpo manifesta la ferita, è opportuno, nel contempo, ricercare se vi sono altre parti molli e rigonfie ed aprire anche queste, dal momento che, forse, l'osso fissurato può trovarsi in quelle parti. (De Medicina VIII, 4, 6) - [in latino]
Ma è anche possibile che sia presente, sotto l'osso integro, una raccolta ematica (ematoma intracranico) che provoca un forte dolore localizzato e alterazioni visive. La terapia consiste nell'evacuazione della raccolta ematica.
... Può accadere talvolta, seppur raramente, che l'osso resti intero e sano, e cionondimeno all'interno del cranio alcuni vasi della membrana si siano rotti a causa del colpo e ci sia stata fuoriuscita di sangue e che questi si sia raggrumato, causando forte dolore e talvolta anche offuscamento della vista. Di solito il dolore è avvertito direttamente sopra il grumo, e, quando lo scalpo è inciso, l'osso appare pallido; in tal caso, deve essere tolto via. (De Medicina VIII, 4, 7) - [in latino]
In caso di frattura dell'osso, la pratica corrente era rimuovere subito i frammenti ossei. Celso, invece, consiglia, in prima istanza di tentare una terapia conservativa con gessi e bendaggio per sei giorni. Se, in settima giornata, si osservano segni chiari di miglioramento (la ferita granuleggia, la febbre cala, ritorna l'appetito e il sonno è tranquillo) si può continuare con la terapia medica.
Ma l'intervento diviene necessario se:
... la febbre si alza, il sonno è breve e agitato dai sogni, la ferita secerne e non tende a guarigione, le ghiandole (linfoghiandole, ndR) del collo si ingrossano bilateralmente ed è presente forte dolore, ed in più l'inappetenza si aggrava, allora soltanto va posto mano alla chirurgia con lo scalpello. (De Medicina VIII, 4, 12) - [in latino]
Eseguito l'intervento, con gli strumenti e le modalità già
più sopra riportate, è necessario procedere alla chiusura e alla medicazione.
... sulla membrana deve essere spruzzato aceto forte, allo scopo di controllare ogni suo sanguinamento o frantumare ogni raccolta ematica raggrumata che resta all'interno. Poi lo stesso gesso, ammorbidito come dianzi detto, va posto direttamente sulla membrana, e poi le garze e le bende e la lana grezza come sopra descritto. Il paziente va posto in una stanza calda e la medicazione rinnovata ogni giorno, due volte al giorno se in estate.
Ma se la membrana gonfia in su attraverso l'infiammazione, deve essere bagnata con olio di rose tiepido; se si rigonfia al punto di sporgere dal livello del cranio, sono necessarie lenticchie tritate o foglie di vite triturate, mescolate a burro fresco o grasso d'oca; ed olio di iris va spalmato sul collo. Ma se sembrerà che la membrana non sia pulita, bisogna spalmarle sopra una miscela in parti uguali di quel medicamento speciale e di miele, e per tenerlo fisso deve essere coperto da uno o due tamponi di garza e al di sopra va posto del lino sopra cui è stato spalmato parte del medicamento. Quando la membrana è tornata pulita, gli va aggiunto un empiastro cerato per far ricrescere la carne. (De Medicina VIII, 4, 18-19) - [in latino]
Celso descrive poi il quadro sintomatologico di un paziente, in postoperatorio che si avvia a guarigione, ma anche quello, assai dettagliato, di un paziente la cui prognosi si fa invece più severa se non addirittura infausta.
... Segni indicativi di guarigione sono una membrana mobile e di colore normale, una carne crescente rosseggiante, e dei movimenti della mandibola e del collo agevoli. Segni negativi sono una membrana immobile, nera o livida o di ogni altro colore malsano; il delirio, il vomito acre, paralisi o spasmo, carne livida e rigidità della mandibola o del collo. Come per gli altri segni - sonno, appetito, febbre e colore del pus - le indicazioni per la morte o la guarigione sono le stesse che nel caso delle ferite. Quando le cose procedono bene, la carne cresce su sé stessa e dall'osso, se questo ha due strati, per modo che lo spazio tra le ossa viene riempito; talvolta cresce addirittura sopra il cranio. (De Medicina VIII, 4, 20-21) - [in latino]
Questi capitoli, dedicati alla patologia traumatica cranica ed ai relativi interventi correttivi, integrano la parte del
De Medicina dedicata da Celso alla traumatologia e alla cura chirurgica delle ferite [la prima parte del libro VII, i capitoli 1 - 5, dedicati alle ferite e ulcere profonde, suppuranti e alle ferite da freccia o giavellotto; tutto il libro VIII, dedicato alle fratture e lussazioni ossee] che, a quell'epoca, doveva destare notevole interesse, vista la notevole estensione dell'apparato militare romano a difesa di un territorio, che, ai primordi dell'Impero, cominciava ad assumere una espansione ragguardevole.
Infatti, proprio in quegli anni, Cesare Augusto, forte dell'esperienza dei quindici anni di guerra civile, seguita all'uccisione di Cesare alle Idi di Marzo e che lo aveva visto vittorioso, si era reso conto dell'importanza del medico al seguito della truppa. Decise, così, di formare un corpo di medici (chirurghi) militari, professionalmente qualificato. I medici militari, in cambio della loro opera, acquisivano benefici consistenti in titoli, terreni e una specie di pensione. Non potevano tuttavia diventare ufficiali, in quanto non partecipavano come combattenti alle battaglie, anche se vestivano la stessa uniforme degli altri legionari.
_________________________________________________
6 scalpellum è un diminutivo di scalprum, termine latino per "strumento acuto e tagliente" [derivato da scalpere, incidere, tagliare], cioé lancetta, bisturi o scalpello.
7 Il termine taberna ha in latino un significato molto ampio, potendosi tradurre con dimora molto umile (capanna), o anche con bottega, magazzino, officina. La « taberna medica » equivale al moderno ambulatorio.
8 La chirurgia odontoiatrica è, invero di origine etrusca. Gli antichi medici etruschi, infatti, erano abili dentisti: si hanno, infatti, nelle tombe, immagini di protesi dentarie, di impianti di denti.
9 Il χοινικίς o trapano a corona era un tubo con il margine dentellato e un perno centrale. Per far ruotare lo strumento il più velocemente possibile (e conseguentemente diminuire il dolore accusato dal paziente) veniva usata una cinghia.
10 Per carie si intende un'affezione infiammatoria dell'osso con rammollimento e distruzione del tessuto, dovuta ad agenti batterici.
11 μηνιγγο-φΰλαξ, letteralmente della meninge custode, lat. membranae custos.
12 λεπίς, λεπίδος, letteralmente lamina, scaglia, squama.